Primo maggio a Portella della Ginestra. Con Anpi e Cgil, nel luogo i9n cui fu comlopiuta la strage anticomunista del 1 maggio del 1947. E siamo ancora a quello che scrisse tre anni dopo la strage Tommaso Besozzi inviato a Castelvetrano dall’Europeo per raccontare la fine del bandito Giuliano, autore di quell’orrenda carneficina voluta da lontani e vicini mandanti.
“Di sicuro c’è solo che è morto…”. Cos’ iniziava quel coraggioso e magistrale pezzo del gran Besozzi che non si beveva la versione fornita dallo Stato. Cioè da carabinieri, ministero dell’interno, ministro Scelba. Un uomo con le palle, Besozzi. Capace di non bersi veline per piaggeria e codardia, come spesso succede nel settore. Il bandito era stato ucciso a Castelvetrano nella notte del 5 luglio del 1950 in un conflitto a fuoco con i carabinieri che gli ave vano teso una trappola. Questo è, in sintesi, quello che diceva la versione
ufficiale dell’Arma, avallata dal Viminale ed echeggiata, senza dubbio alcuno, dai maggiori quotidiani dell’indomani.
Prese tempo invece Tommaso Besozzi, inviato dell “Europeo”. Confrontò ciò che vide a caldo sui luoghi dell’accaduto con le testimonianze degli abitanti della zona: la versione dei carabinieri gli apparve piena di incongruenze e di stranezze.
Dopo dieci giorni di inchiesta la smontò, svelando le bugie dell’Arma e del ministro dell’interno Scelba: la prima pagina de “L’Europeo” del 16 luglio 1950 titolava: “Di sicuro c’è solo che è morto”. Un pugno nello stomaco.
Portella è ancora lì, col suo carico di storia e di sangue: intanto i 12 morti. Ricordiamoli, gente del popolo, donne, bambini, ammazzati senza pietà perché “comunisti” a raffiche di mitra dalle alture circostanti. Una carneficina in cui morirono Margherita Clesceri, Giorghio Cusenza, Giovanni Megna di 18 anni, Filippo di Salvo, Francesco Vicari, Castrense Intravvaia di 18 anni, Vito Allotta di 19 anni, Serafino Lacari di 15 anni, Giovanni Grifò di 12 anni, Vincenzo La Fata di 8 anni, Giuseppe Di Maggio di 7 anni.
Nel centro un podio di pietra. Quando sulla rudimentale tribuna salì il primo oratore, il calzolaio Giacomo Schirò, segretario della sezione socialista di Piana, scoppietarono attorno battimani e, per un attimo ancora, canti festosi, gli inni dei lavoratori. Poi fu silenzio. Distintamente si udirono le parole del discorso: “Compagni lavoratori, siamo qui riuniti per festeggiare il Primo Maggio, la festa dei lavoratori…”. A questo punto il costone di Monte Pizzuto risuonò di raffiche ed i primi proiettili fischiarono tra la folla. I primi morti caddero sulla pietraia, i gemiti dei primi feriti sottolinearono le raffiche. Dall’alto gli assassini dominavano tutto il paese. Urla e grida riempirono la piana; le bandiere rosse caddero coprendo gli alfieri colpiti. Anche alle spalle, sul Monte Cometa, stavano allineati, nettamente visibili contro il cielo, altri assassini intabarrati, con le armi al piede, pronti ad intervenire. Dieci muniti di raffiche, dalle 10,30 alle 10,40. Quando le mitragliatrici tacquero, a terra uomini e donne e bimbi e vecchi, sotto gli zoccoli dei cavalli impazziti. Sangue sui massi grigi, sangue rosso e le bandiere del lavoro strappate e lacere. Gli assassini scomparvero all’improvviso: forse dovevano recarsi immediatamente a riferire dell’esito dell’eccidio, a chi li aveva mandati a commetterlo. Sulla piana rimanevano i morti».
3 maggio 1947
Hanno scritto ora Anpi e Cgil. “Tra i monti di Portella si intrecciano storie diverse: da un lato ambienti deviati dello Stato che si coniugano agli interessi degli agrari, della mafia e del banditismo in un unico progetto reazionario e criminale. Dall’altro i lavoratori della terra, in festa per il 1° maggio, con il cuore pieno di ansia di progresso e la voglia di cambiare il loro mondo. Il fuoco assassino spegne la vita di 12 di loro e tenta di cancellarne le speranze”. Portella della Ginestra ha passato, e reclama futuro”.
P:ortella della Ginestra, la madre delle stragi. Una strage su cui fino al 2016 vale il segreto di stato.