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I depistaggi nell’inchiesta sulla morte di De Mauro

Di certo, l’inchiesta sull’omicidio De Mauro è stata scandita da pesanti depistaggi, iniziati sin da subito. Ecco perché la prima sentenza arriva solo quarant’anni dopo. “Furono depistaggi magistrali messi in atto da esponenti della polizia, dei carabinieri e dei servizi segreti”, così li hanno descritti i pm nel corso della requisitoria. E perché la verità non si scoprisse, scomparvero presto nove pagine degli appunti che De Mauro aveva raccolto durante l’indagine su Mattei, commissionata dal regista Francesco Rosi. I fogli erano al giornale “L’Ora”, nei cassetti di una scrivania che furono aperti il giorno dopo il sequestro dai vertici del quotidiano, prima ancora dell’arrivo della polizia.

Il legale della famiglia De Mauro, l’avvocato Francesco Crescimanno, ha denunciato nel suo intervento finale in aula: “Non vi è dubbio che alcuni soggetti o alcuni settori del giornalismo non hanno vissuto adeguatamente quel momento. Ci sono passaggi ancora traballanti”.

E perché negli ultimi tempi un cronista investigativo di razza come De Mauro era stato trasferito allo sport? Se lo sono chiesti i pubblici ministeri: “De Mauro fu tradito dal suo stesso ambiente?  –  hanno proseguito Ingroia e Demontis – Qualche potente aveva influenza su L’Ora?”.

Nell’aula della corte d’assise è risuonato il nome dell’avvocato Vito Guarrasi, uno dei potenti di Palermo, spesso sfiorato dal sospetto di essere il trait-d’union fra la mafia e i poteri occulti d’Italia. E’ morto nel 1999, senza che mai quei sospetti si fossero trasformati in un’inchiesta a suo carico. Solo dopo la morte di De Mauro, qualche investigatore della squadra politica della questura di Palermo aveva aperto un fascicolo a nome “Guarrasi”. E aveva anche intercettato le telefonate di un commercialista che sembrava essere la longa manus dell’avvocato: era quell’enigmatico Nino Buttafuoco che si era proposto di aiutare la famiglia De Mauro dopo il sequestro.

Ma pure le bobine delle intercettazioni sono sparite. Non si trovano più neanche le trascrizioni. L’ultima amara verità emersa nel processo dice che nel novembre 1970 arrivò a Palermo l’allora capo dei servizi segreti Vito Miceli: avrebbe presieduto una riunione con i vertici delle forze di polizia, convocata nella villa Boscogrande dove il regista Visconti aveva girato le scene iniziali del “Gattopardo”.

“E’ arrivato l’ordine che le indagini vengano annacquate”, confidò qualche tempo dopo il commissario Boris Giuliano a uno dei magistrati che si occupavano del caso De Mauro. E nessuno indagò più su Guarrasi, sulla fine di Mattei, e su tutti i sospetti che portavano allo scoop eclatante di De Mauro. “Farò tremare l’Italia”, aveva confidato lui a un amico, pochi giorni prima di morire. Il mistero continua.

La Procura di Palermo aveva chiesto la condanna all’ergastolo per il capo di Cosa nostra, sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti storici, da Tommaso Buscetta a Gaspare Mutolo, da Francesco Marino Mannoia a Francesco Di Carlo. Di recente, il nome di Riina era stato fatto anche da un altro pentito che rappresenta un pezzo di storia di Cosa nostra, Rosario Naimo, che collabora da appena sette mesi con la Procura di Palermo: ha rivelato le confidenze di uno dei rapitori di De Mauro, Emanuele D’Agostino, morto anche lui. Ci sarebbe stato Riina ad attendere che i rapitori consegnassero De Mauro, in una villa poco fuori la città, dove oggi sorge il quartiere Zen. Questo sosteneva Naimo. Ma non è bastato ai giudici della corte d’assise di Palermo presieduta da Giancarlo Trizzino.

“Questo è un processo di mafia, ma non solo”, aveva detto nella requisitoria il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, che ha sostenuto l’accusa assieme al collega Sergio Demontis: “Non fu solo Cosa nostra a volere la morte del cronista de L’Ora  –  questa la tesi della Procura di Palermo  –  c’erano anche altri ambienti e personaggi interessati, altre organizzazioni non mafiose alleate con Cosa nostra: dalla massoneria deviata alla destra eversiva golpista, dai servizi segreti infedeli a un certo mondo della finanza e della politica”.

Secondo la ricostruzione dell’accusa, sarebbero stati in molti a voler fermare lo scoop che De Mauro aveva annunciato a pochi amici, ai familiari e forse a qualcuno che potrebbe averlo tradito: dal processo è emerso che il giornalista palermitano aveva scoperto qualcosa di importante sulla morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei, ucciso il 27 ottobre 1962 dall’esplosione dell’aereo che lo stava riportando a Milano dopo una visita in Sicilia. Questo hanno ipotizzato i pentiti Mutolo, Buscetta e Grado. O forse De Mauro aveva scoperto che il principe Junio Valerio Borghese stava preparando un colpo di Stato, per il dicembre di quel 1970. Così sostiene un altro pentito, Francesco Di Carlo.

Nel primo, come nel secondo episodio, i padrini di Cosa nostra avrebbero avuto un ruolo. Il cronista del giornale “L’Ora” l’aveva scoperto da alcune sue fonti rimaste ignote, forse all’interno dell’organizzazione mafiosa. Ma le dichiarazioni dei pentiti non sono bastate per la condanna di Riina.


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