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In visita al Cie di Roma, tra gabbie e squallore. Furio Colombo su “Famiglia cristiana”

Furio Colombo su “Famiglia Cristiana” racconta la sua visita al Cie.

Gabbie e squallore, senza pietà né diritto
Il parlamentare Furio Colombo racconta la sua visita al Cie di Roma, frutto della paura e di una cultura politica che considera criminali i clandestini: «Li dentro finiscono molti che non hanno commesso reati».
Famiglia Cristiana
FURIO COLOMBO
Si apre un immenso cancello scorrevole. Al di là c’è un soldato che verifica e trattiene i documenti. Noi siamo deputati o politici (l’iniziativa è del giovane segretario del partito radicale, Mario Staderini, e dell’onorevole Rita Bernardini) e questo determina una curiosa estraneità, come una differenza di mondi. Passano veicoli militari lungo la striscia d’asfalto che separa il grande cancello dagli edifici in cui stiamo per entrare e che – da fuori, da lontano – sono lastroni di cemento senza aperture.
Qui, alle porte di Roma, a Ponte Galeria, un contenitore di cemento e metallo, grande e ben sigillato, è stato preparato per chi viene catturato nel perverso gioco dei clandestini. Gente che vive e lavora in Italia dopo essere sfuggita ala morte di guerra e alla traversata del mare, viene fermata mentre porta i bambini a scuola o commette l’imprudenza di andare in ospedale, viene “catturata” mentre va o viene dal lavoro. E – come in quei Paesi estranei alla democrazia – i catturati sono portati in grandi gabbie a cielo aperto, che cedono il passo a piccole stanze gelide con dodici o quindici letti.
Qui un essere umano costa alla Repubblica italiana 47 euro al giorno, quasi solo per piatti precotti con giorni di anticipo e che tutti – uomini e donne, ucraini e africani – descrivono come immangiabili, un bel vantaggio per chi (chissà con quali regole) ha vinto l’appalto. La nostra visita non porta pace. I detenuti parlano con affanno. Si capisce subito che non incontrano mai nessuno, che il giudice di pace, quando viene, non può che certificare che “mancano i documenti” e che “gli avvocati d’ufficio” scompaiono subito, dopo la prima formalità di un finto processo.
Molti, detenuti qui, non hanno mai commesso alcun reato. Lavoravano legalmente in Italia. Qui – in un centro detto di “identificazione” – ci sono anche persone portate nelle gabbie dopo aver scontato anni nelle prigioni italiane, dunque dettagliatamente identificate per il processo e la detenzione. L’emozione è difficile da controllare, anche se l’uomo che hanno portato via mentre tornava a casa, dopo il lavoro nella piccola impresa di cui è titolare, per cenare con moglie e figli e raccontare la giornata e sentire le storie di casa, non può far finta di non piangere. Quanto agli ex detenuti, essi sono vittime di una doppia illegalità: fingere di non sapere chi sono e ammanettarli senza alcun provvedimento di un giudice.
I detenuti aspettano nel vuoto del tempo e nello squallore dei posto, dove nessuno ti difende, nessuno ti ascolta, nessuno ti cura. Ho già detto – e vorrei ripeterlo – che due medici della Croce rossa (uno nero, uno bianco, il dottor Amos Dawodu è il responsabile) provvedono da soli e senza mezzi, come nell’avamposto assediato di una guerra. Le Asl del Lazio di questi malati non ne vogliono sapere. Non ci sono nomi o numeri di telefono per cercare l’aiuto di un avvocato.
Ho già detto – e ripeto – che l’80 per cento di donne e uomini portati nelle gabbie di Ponte Galeria non ha commesso alcun reato, non è accusato di nulla. La detenzione illegale di cui è colpevole lo Stato italiano durava fino a sei mesi. Poi, nel 2010, il ministro leghista Maroni l’ha portata a un anno e mezzo. «Per ragioni di sicurezza», ha detto. Il momento più temuto è quando due agenti ti affiancano e ti portano all’aeroporto per farti salire insieme a loro su un velivolo diretto in un luogo che il più delle volte i deportati non conoscono perché tutto ciò che hanno, dai figli al lavoro, è in Italia. Una legge detta “pacchetto sicurezza”, che tratta tutti gli immigrati come criminali, li deporta dal Paese che hanno arricchito con il loro lavoro, fuori dalla Costituzione italiana, lontano da ogni riferimento alla Carta dei diritti dell’uomo. ■

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