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Le intrepide avventure del giovane De Saussure…(dalla prefazione a “La conquista del Monte Bianco”)

Horace Bénédict de Saussure e i suoi viaggi al Monte Bianco. Ovvero l’invenzione dell’alpinismo. Dal libro in uscita per Vivalda “La scoperta del Monte Bianco” pubblico qui la mia prefazione che dà conto del personaggio e delle sue avventurose scalate.

“Torna finalmente in libreria questo insieme di storie che riferiscono dell’inizio di un’avventura moderna chiamata poi alpinismo. A redigerle un uomo dei lumi, che oltre alla penna amava anche l’incognito e l’impossibile. Queste storie rappresentano il succo estratto dai quattro libri di viaggio di Horace-Bénédict de Saussure, naturalista ginevrino (1740-1799), e mancavano in libreria da oltre trent’anni, quando ne uscì per la prima volta una traduzione in Italia e che ora è qui di nuovo disponibile, rivista e corretta.

Impensabile per chi ama la montagna non tener conto del diario del creatore del moderno alpinismo, il giovane e intrepido De Saussure, coltivatore appena ventenne di una passione (era il 1760 l’anno d’inizio di questa ossessione…) che non lo lasciò più per tutta la vita e che dopo il Monte Bianco, lo portò poi anche sul Rosa e sul piccolo Cervino. Il resoconto dei suoi “voyages”, che sono insieme viaggi, spedizioni e ascensioni sul monte più alto d’Europa, una volta sfrondati dal superfluo, sono un godibile punto fermo non solo della letteratura di montagna ma della letteratura in generale. Tra queste pagine non si respira solo l’aria nuova dell’alpinismo, ma anche e soprattutto una radicata  vocazione alla conoscenza del mondo in cui viviamo e delle sua infinite storie. Più che una sfida, però, qui si dipinge una malattia, un’ossessione verso l’ignoto, una lunghissima ricerca che prende la forma della conquista del “monte” per eccellenza, quel colosso apparentemente inaccessibile e ancor oggi talmente pericoloso da poter uccidere come è successo poco tempo fa e che è il Monte Bianco. Una sfida sfaccettata e poliedrica lanciata ad appena vent’anni di vita, questa l’età del giovane naturalista di Ginevra turbato dalla vista di quella vetta all’apparenza imprendibile e d’improvviso deciso a rompere un tabù…

Avere dunque vent’anni e chiedersi perché quel picco all’orizzonte…e perché non arrivarci in cima, cosa che nessuno ha fino a quel momento mai immaginato di fare. Anzi, che i più considerano francamente impossibile. De Saussure non è un supereroe, tutt’altro.

Le cronache lo ricordano come uomo solitario, dotato di una salute mediocre e di un fisico poco adatto alle grandi imprese, un giovane professore, un naturalista, un enciclopedista. Quando avvia la sua sfida non è ancora sposato, quando diciassette anni dopo la conclude (nell’agosto del 1787) ha ormai moglie e due figli, più uno stuolo di amici che col cannocchiale lo seguono con apprensione estrema dal basso intento a coronare il sogno di tutta la sua vita (arriva terzo, ma i primi due è come se un anno prima ce li abbia spinti lui…). Per un mese in quel lungo luglio ha letto l’Iliade,  aspettando il momento buono tra una pioggia e l’altra, già due uomini l’hanno preceduto lassù dimostrando che è possibile arrivarci, dunque si può fare…In mezzo a questi ventisette anni di attesa ci sono una lunga serie di viaggi da cui qui sono tratti i brani, spedizioni spesso vere e proprie che lo hanno fatto girare come una trottola impazzita intorno al suo oggetto di desiderio, armato del suo bagaglio di spirito scientifico (strumenti compresi, igrometro, termometro, elettrometro,  barometro, bussola, cannocchiale, campionature di colore…), il suo laicismo radicato, un  ecologismo ancora in germe e soprattutto un’ottima dose di formidabile follia.

Trent’anni fa scrivevo in proposito: “Ci sono altri folli che lo precedono per picchi e burroni, uomini dalla  vita incerta, dediti a una passione che oltrepassa l’oggetto della ricerca: i cacciatori di camosci. E lui, il naturalista, difende i camosci, ne depreca lo sterminio, ma non può fare a meno di solidarizzare implicitamente con quel non senso che è la vita dei cacciatori. Dice infatti, chiedendosi che cosa li spinga a quell’attività: “Non è la cupidigia, almeno non la cupidigia ragionata; infatti il più bel camoscio non vale mai più di dodici franchi per colui che lo uccide, comprendendovi anche il valore della sua carne; ed ora che il numero degli animali si è ridotto assai, il tempo che di regola si perde per acchiapparne uno vale assai più di dodici franchi. Ma sono questi stessi pericoli, questo alternarsi di timori e di speranze, l’agitazione continua alimentata nello spirito da questi alti e bassi, è tutto questo ad eccitare il cacciatore, così come anima il giocatore, il guerriero, il navigatore e anche, fino a un certo punto, il naturalista delle Alpi, la cui vita assomiglia per molti aspetti a quella del cacciatore di camosci”.

Timori, speranze, caccia…Il naturalista delle Alpi è anche e soprattutto un tenace cacciatore di montagne, un uomo colto (filosofo, botanico, fisico…) che si è ritrovato a vivere in un secolo – il ‘700 – che improvvisamente ha scoperto di avere delle regioni “selvagge” nel cuore stesso dell’Europa. E Ginevra non ha solo il suo Rousseau in cerca del suo Emilio in carne ed ossa, ha anche De Saussure che punta su questa enorme pietra  “maledetta”, quel colosso che il professore ginevrino contempla dalla propria città, là all’orizzonte, non senza avvertire “un doloroso trasporto”, un monte che finalmente ha da poco perso la sua lunga serie di nomignoli maledetti (Monmalet, Mont Malet, Mont Malay, Mont Maudit, Montagne Maudite) e che dal 1744 ha assunto il nome di Mont Blanc, Monte Bianco.

Il nuovo nome è appena comparso infatti in una relazione di viaggio, pubblicata a Londra dall’ottico ginevrino Pierre Martel. Vi si è descritto l’itinerario di un “voyage” fatto nel 1741 (e ripetuto nell’anno successivo) dagli inglesi William Windham, antropologo, e Richard Pocock, viaggiatore.

I due inglesi si erano avvicinati a quella terra vergine che era il massiccio misterioso del Monte Bianco con lo stesso spirito degli esploratori di terre esotiche d’oltremare, considerandola “terra di briganti e di selvaggi”. De Saussure ce ne fa una ironica descrizione nel corso di questo volume. Sta di fatto che quella carovana si era accampata militarmente nella valle di Chamonix, con sentinelle e fuochi accesi, guardando torvamente valligiani esterrefatti e montagne imperturbabili, come per un’invasione felicemente poi risoltasi in un invito a colazione a casa del curato! Costoro rappresentavano però i timori di un secolo, che soltanto uomini come De Saussure avrebbero disperso al vento grazie a un nuovo punto di vista, la conquista della montagna.

Fino a quel momento infatti la storia del rapporto uomo-montagna è stata una non storia. Gli stessi passaggi per le Alpi di personaggi famosi mettono insieme più una sequela di aneddoti e di paure che un qualche interesse per la cosa in sé. E’ il freddo a far da protagonista. Si cerca di passare, non di scoprire. Fino al XVI secolo non nasce propriamente nessuna letteratura alpina, ma quando essa inizia l’alpinismo è ancora una cosa impensabile. E ancora nel 1723, uno studioso zurighese, Johann Jakob Scheuchzer (1672-1733), dedica una parte di una sua imponente opera sulla storia naturale ai vari tipi di draghi alpini!

Invece De Saussure va a Chamonix, guarda in faccia il suo “mostro” di pietra e affigge un bando in parrocchia, promette un premio a chi giunga per primo in vetta al monte inaccessibile. E’ il 1760, ventisei anni dopo l’impresa sarà fatta. Sulle prime però l’offerta del nostro naturalista non viene presa molto sul serio. Sembra una boutade, una semplice provocazione. In alto si va per quarzi o per camosci, non per divertimento. Poi però nel 1762, Pierre Simon (una guida utilizzata dal De Saussure nelle sue prime escursioni) si decide al gran passo e compie due tentativi, uno attraverso il Glacier des Bossons e l’altro per la Mer de Glace (allora detto Glacier de Tucul). L’insuccesso bloccherà per molto tempo ogni altro tentativo.

Nel frattempo si susseguono i viaggi del nostro naturalista intorno al colosso. Bisogna arrivare al luglio del 1775 per veder iniziare davvero la gara, grazie a quattro guide di Chamonix che puntano sul passaggio della Montagne de la Côte. Rinunciano a metà percorso per la nausea da cui vengono assaliti e che per molto tempo alimenterà di nuovo le leggende sull’impossibilità dell’impresa. Nel 1779 è la volta di un altro insuccesso, quello del  conte di Viviens. Segue un altro periodo di stasi. La montagna sembra imprendibile. Si arriva così al 1783. Nel luglio altre tre guide  ritentano per la via di Couteran, cioè per la Montagne de la Côte, ma fanno marcia indietro nei pressi del Petit Plateau. In settembre si muovono all’assalto il dottor Michel Gabriel Paccard – medico di Chamonix, botanico, appassionato di mineralogia, futuro conquistatore della vetta – e Marc Théodore Bourrit, viaggiatore, esploratore, scrittore. I due raggiungono la Montagne de la Côte ma di fronte ai primi annuvolamenti Bourrit fa precipitosamente  dietrofront. Paccard lo manda al diavolo e si mette a cercare da solo nuove vie: l’anno successivo compie due escursioni insieme a una nuova guida, Jacques Balmat, una sul Colle del Gigante e l’altra all’Aiguille du Gouter. Si è formata la coppia di alpinisti che alla fine, due anni dopo, la spunterà. Paccard è spinto dalla passione, Balmat soprattutto dall’esca della ricompensa offerta da Saussure. A farli conoscere era stata tre anni prima la malattia della figlia di Balmat, Judith.

Pochi giorni dopo li seguono Marie Couttet e François Cuidet che raggiungono il Col du Dôme. La ricerca affannosa del passaggio è ormai gara aperta. Essa oscilla su due direzioni: una è quella individuata per prima e che alla fine si rivelerà per buona, cioè quella per la Montagne de la Côte; l’altra riguarda invece l’invalicabile Aiguille du Gouter.

E’ proprio su questa seconda via che si forma il 13 settembre del 1785 la provvisoria coppia Bourrit-Saussure che tenta una scalata in grande stile. Il resoconto di quella spedizione fa parte del presente volume. Ed è un altro insuccesso. Ma questo tentativo entrerà negli annali perché per la prima volta vi si usano le corde, un’invenzione del De Saussure.

E alla fine ecco riprovarci la vecchia coppia formata da Michel Gabriel Piccard e Jacques Balmat. Il 7 agosto del 1786 fanno centro. Partono con due alpenstock, una coperta, qualche provvista e gli strumenti scientifici di Paccard. Passano per la Montagne de la Côte, raggiungono le rocce dei Grands Mulets in mezzo al Grand Plateau di ghiaccio, transitano accanto a quello che per Saussure più tardi sarebbe diventato il Rocher de l’Hereux Retour, superano le Rochers Rouges e poi sul calare della sera, alle sei e ventitré, si rincorrono come due adolescenti fin sulla tanto agognata vetta: prima vi mette piede il dottor Paccard, poi lo segue Balmat.

E De Saussure? Viene a sapere del successo vedendosi piombare in casa il Balmat che, appena sceso a valle, si è precipitato a Ginevra per riscuotere la ricompensa. Per tutti quegli anni Saussure ha compiuto viaggi ed escursioni nella zona del massiccio, ha effettuato tentativi di scalata, ha studiato e analizzato tutto ciò che si può studiare e analizzare, ne ha ricavato una gran mole di diari redatti in tutte le condizioni possibili che sarebbero stati poi la base per la sua opera più ampia, i Voyages dans les Alpes in 4 volumi pubblicati tra il 1779 e il 1796. Per tutto quel tempo la montagna l’ha seguito ed ossessionato, dappertutto, nonostante le sue varie occupazioni. De Saussure ha occupato la sua cattedra di filosofia all’Accademia di Ginevra, ha soggiornato per due anni (dal 1768 al 1769) in Inghilterra, poi in Sicilia e a Napoli ospite di William Hamilton. Ma sempre è tornato a quell’oggetto di “doloroso trasporto”.

La sua “conquista” avviene il 3 agosto del 1787. Saussure parte con 18 guide, tra cui Jacques Balmat e François Coutet. Tra loro soprannomi che sono un programma: Mont Blanc, Le Géant, Jorasse…La relazione di quella terza ascensione vittoriosa – la più numerosa di tutte quelle succedutesi fino ad allora – è dettagliatamente riportata in questo libro. Dopo di lui verranno poi l’inglese Mark Beaufoy, nel 1787, e ancora altri 13 “conquistadores” tra il 1788 e il l827: tra loro anche il sedicenne Elie-Ascension de Montgolfier, nipote dei famosi fratelli (non riuscì a raggiungere la cima, però era da solo…) e la prima alpinista del Bianco, la giovane domestica di Chamonix Marie Paradis, che insieme a Jacques Balmat raggiunse la vetta nel 1808.

Nessuno tra loro ha lasciato però dietro di sé pagine come queste in cui sono distillati così tanti umori. E straordinari consigli. Come quello di come si “padroneggia” un orrido: “Prima di intraprendere un brutto passaggio, occorre iniziare col contemplare il precipizio e saziarsene per così dire, fino a che esso abbia esaurito tutto il suo effetto sull’immaginazione, e che lo si possa guardare con una sorta d’indifferenza. Al tempo stesso occorre studiare il percorso che si farà e mentalmente segnare, per così dire, i passi che si dovranno compiere. Poi non si pensa più al pericolo e ci si occupa soltanto di seguire il percorso che ci si è prescritti. Ma se non si riesce a sopportare la vista del precipizio e ad abituarvisi, occorre rinunciare all’impresa; infatti quando il sentiero è stretto, è impossibile guardare dove si mette il piede senza vedere anche il precipizio; e quella vista, se vi coglie all’improvviso, vi dà il capogiro e può provocare la vostra fine…”.

Paolo Brogi

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