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Mauro De Mauro sequestrato dalla mafia e infangato, un destino comune agli otto giornalisti uccisi in Sicilia da Cosimo Cristina a Mauro Rostagno

16 settembre 1970, Mauro De Mauro giornalista dell’Ora viene sequestrato sotto casa a Palermo in via delle Magnolie. Sequestrato e scomparso nel nulla. De Mauro è uno degli otto giornalisti uccisi in Sicilia dalla mafia. La sentenza con cui non è stato condannato Totò Riina emessa a Palermo di recente dice in sostanza, nelle oltre duemila pagine, che De Mauro si era spinto un po’  troppo avanti nell’inchiesta sulla morte di Enrico Mattei.

Che vuol dire?

Cosa rappresenta questa pista Mattei che tornerà pochi anni dopo anche con le carte di Petrolio di Pasolini?

Un fatto è certo: il fango che fu subito gettato su De Mauro servì se non altro a far dimenticare questa inchiesta.

Il fango era che De Mauro era stato un repubblichino, durante la seconda guerra mondiale, e che aveva contatti con Junio Valerio Borghese. Con questo fango si è a lungo nascosto il frutto delle inchieste di De Mauro e la sua attenzione a Eugenio Cefis e a tutti quelli che ce l’avevano con Enrico Mattei. Un modo per screditare il giornalista dopo averlo eliminato, un meccanismo che è stato utilizzato con tutti i giornalisti ammazzati in Sicilia.

L’ho sottolineato di recente nei due momenti in cui in Sicilia, a Modica il 30 agosto e a Catania il 31, è stato ricordato Mauro Rostagno.

A Modica l’occasione era data dal Festival del giornalismo, iniziativa della rivista “Il clandestino, con permesso di soggiorno”. La sede era giusta per ricordare alcuni tratti generali dell’eliminazione di voci scomode, giornalisti appunto, come quella di Mauro Rostagno. Comun denominatore, per tutti gli otto i giornalisti uccisi in Sicilia dalla mafia, è stato il binomio fango e mancata giustizia.

Il fango innanzitutto. E cioè il modo con cui infangare fin dall’inizio l’inchiesta giudiziaria cercando di spingerla verso lati fangosi, il sesso, vicende personali, aspetti devianti. Un modo per eliminare con la persona eliminata anche tutto ciò che ha scritto e denunciato, mostrandolo come il prodotto di una persona poco attendibile.

Ho ricordato allora la prima vittima di questo binomio, Cosimo Cristina, ucciso nel 1960. Impressionante è stato anche natural hgh il set dell’omicidio, una strada ferrata appena fuori di una galleria a Termini Imprese (come per Peppino Impastato a Cinisi diciotto anni dopo) e l’aureola di “fallito” appioppata alla vittima, uno presentato come appena lasciato dalla donna (non era vero) e senza più lavoro (la mafia aveva premuto per farlo licenziare dalla ditta di caffè in cui lavorava, con l’attività di collaboratore per l’Ora con le inchieste peraltro molto incisive sui Frati di Mazzarino non avrebbe di certo potuto campare).

La mancata giustizia, nel suo caso, è stata l’archiviazione frettolosa decisa dai magistrati che avevano preso per oro colato lo scenario predisposto dagli assassini mafiosi, archiviazione solo in parte compensata dalla riapertura delle indagini poi ottenuta dal commissario Mangano una volta arrivato a Termini Imerese.

L’occasione è stato poi di ricordare – in particolare a Catania – alcuni paradossi delle inchieste, come quello che registra nel processo per l’omicidio di Mauro Rostagno la concorde voce di una decina di collaboratori di giustizia che hanno indicato come mandante del delitto don Francesco Messina Denaro, il padre dell’attuale capo Matteo, il quale nell’oleificio di Castelvetrano avrebbe dato mandato ad uccidere dicendo a Vincenzo Virga di togliergli di mezzo “chiddu a varva”.

E dove sta il paradosso? Nel protocollo antimafia siglato alla presenza del ministro Cancellieri pochi mesi fa a Trapani, presente il senatore Pdl D’Alì, proprio il rappresentante di quella famiglia per la quale lavorava come “campiere” don Ciccio Messina Denaro. Non è un segreto che il capomafia sia morto in un terreno dei D’Alì. Che colpa ne ha D’Alì? Nessuna certo, tanto è vero che gli hanno perfino permesso in passato di essere con Berlusconi premier sottosegretario all’Interno. Però, è inevitabile pensarlo, questo tipo di Sicilia fa davvero impressione…

Il fatto che vi si celebri un faticoso processo come quello per l’omicidio di Mauro Rostagno – giunto ora alla 55° udienza e con la prospettiva di chiudere entro la fine dell’anno – induce a chiedere una maggiore mobilitazione perché l’occasione di giustizia giunta con così grave ritardo a 25 anni ormai dalla morte di Rostagno non venga sprecata.

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