Informazioni che faticano a trovare spazio

Da dove sono nati i Forconi…

Cosa sono i Forconi? Pitchfork li chiama la stampa inglese. I pitchfork è un’Italia fortemente impoverita, ha scritto giustamente Marco Revelli sul Manifesto andandoli a guardare da vicino a Torino. C’è l’Italia impoverita, certo, così come ci sono i fascisti che cercando di cavalcare la situazione. E non è che non ci riescano: fa impressione che il numero due di Casapound, arrestato oggi dopo acver sottratto la bandiera dell’Unione Europea dal balcone degli uffici europei a Roma, sia intervenuto il giorno prima al presidio di Piazza dei Partigiani a Roma ottenendo un’ovazione col solo parlare male del governo e dell’Europa, dei politici italiani e di quelli d’oltralpe.

Un movimento dunque piuttosto disposto a tutto compreso lo sdoganamento dei fascisti di Forza Nuov a e di Casapound. Un misto di ignoranza e di faciloneria poujadista che all’insegna del vaffanculo – Grillo è l’apripista – si è raggrumato in giro per l’Italia.

Ma perché questa crescita? Due anni fa sono andato a verificare di persona tra i Forconi siciliani, il posto in cui sono nati, e nelle pagine che qui accludo di seguito dal mio libro “Uomini e donne del Sud”, nel capitolo dedicato ai Forconi per l’appunto, ho cercato di capire da dove siano usciti fuori. E subito ho constatato un vecchio problema italiano che si chiama sinistra: totale assenza di interlocuzione.

Poi ci si meraviglia delle derive e di tutto quel che ne viene fuori. Ma il primo problema è chiedersi: cxhe cosa è stato fatto per ascoltare le ragionbi dei Forconi?

Pare niente. Qui di seguito il capitolo del mio libro “Uomini e donne del Sud”, Aliberti editore. Ecco:

Forconi e pomodorini di Pechino

Avola, un nome che evocava fino ad ieri un eccidio del ’68, con i braccianti uccisi dalla polizia. Il paese agricolo del siracusano oggi però è ricordato anche come culla del movimento dei Forconi. Siamo nel maggio del 2011, in visita ad Avola c’è l’allora ministro dell’agricoltura dell’ultimo governo Berlusconi, Francesco Saverio Romano. Per l’occasione si riuniscono lì agricoltori e anche pastori sardi. Si deve a Felice Floris, leader dei pastori sardi, l’adozione del nome di battaglia “Forconi”. E’ lui infatti a suggerirlo a Mariano Ferro, agricoltore del siracusano, capo in pectore del movimento nascente. “Mariano – così Ferro riferisce del colloquio -, lo dobbiamo chiamare movimento dei Forconi. Buona idea, gli risposi…”. E così è stato.

In principio, prima delle accuse di essere manovrati dalla mafia e della scomoda presenza degli estremisti di destra di Forza Nuova, c’è il profondo malumore che viene dalle campagne siciliane. Sentite come lo racconta Francesco Tusa agricoltore a Monreale.

“Nei mercati registriamo una crescente incidenza di prodotti esteri, dal Cile, dal Brasile, dal Sud Africa, dal Marocco – spiega Tusa -. Quando abbiamo bloccato la Salerno Reggio Calabria cosa c’era a bordo della maggioranza dei Tir che provenivano dal Nord? Frutta e verdura, incredibile, destinate alla Sicilia e non solo per il consumo dell’isola. Noi li chiamiamo i pomodori di Pechino. In Sicilia molta produzione estera viene riciclata. Ci sono norme che hanno spianato la strada a questa schifezza. E intanto noi agricoltori siciliani affoghiamo e dobbiamo abbandonare la campagna…”.

A Monreale il piccolo regno di Tusa consiste in due ettari di frutteto, in prevalenza susine. A mettere in piedi la produzione è stato il nonno. “I nonni vivevano dei proventi, diciamo con un minimo di agiatezza”, spiega Francesco Tusa. “Poi quando il frutteto è passato a mio padre sono cominciati i problemi. Il commercio ortofrutticolo ha preso una brutta china, sempre peggio. E così mio padre ha dovuto arrangiarsi facendo anche il camionista. A un certo punto, stufo della situazione, mio padre voleva vendere i terreni, mi opposi io alla cessione che in quel momento avrebbe fruttato circa 600 milioni di lire, il valore di quattro appartamenti. Non volevo rinunciare alle susine. E così ho preso in mano io la produzione, non pensando alle progressive aperture di frontiera, a tutta quella merce che non sa di nulla e che pian piano ha riempito i banchi dei mercati e dei supermercati. Incredibile, arriva di tutto e questi grandi importatori non sono controllati da nessuno. Quando ci siamo mossi ne abbiamo scoperte di tutti i colori. Carichi di frumento ammuffiti che arrivano dall’Argentina insieme a frutta che si presenta come siciliana e invece viene dall’Uruguay. Noi ce ne accorgiamo ma i consumatori se ne rendono conto? E intanto all’Assemblea regionale il presidente della terza commissione, quella per le attività produttive, Salvino Caputo, si vantava di aver siglato un accordo col Marocco. Mi chiedo: cosa ne viene al popolo siciliano? Cosa ne viene a noi agricoltori? Mi pare solo il danno…”.

Nel frattempo nei suoi due ettari le produzioni collaterali finivano malissimo: albicocche e nespole fuori mercato, roba da buttare o lasciare sugli alberi, non gli restavano che le susine. “Si fa presto a spiegare come finisce la mia produzione: un terzo delle susine riesco a venderle a 70, 80 centesimi al chilogrammo e sono le susine che sui banchi trovate poi da 2,20 a 2,50, un terzo lo devo vendere sottoprezzo e un terzo infine lo devo mandare al macero perché non ha mercato. C’è di che mangiarsi le mani…Questa condizione è della maggioranza degli allevatori, che vivono nella più completa rassegnazione. Finché resistono, la terra lavorata c’è ancora, poi man mano che cedono le armi avanza la desertificazione. Altro che Sicilia giardino d’Europa…A Monte Allegro le bellissime arance Washington, biologiche e sanissime oltre che belle rosse, restano ormai sugli alberi. A Collesano al mio amico Giovanni hanno offerto di montare i pali eolici nei suoi quattro ettari, al posto delle produzioni agricole. Si falcidiano gli allevamenti, si distruggono i boschi. Prima di avviare la protesta dei Forconi ci si vedeva ai mercati, ai consorzi irrigui, facce sempre più incazzate e tristi…Ora perlomeno protestiamo a testa alta”.

Mariano Ferro invece i suoi 20 ettari ad Avola con produzioni in serra (ortaggi e primizie) li ha affittati ormai da un anno e mezzo. Ci vivevano dieci famiglie di agricoltori, ma i prodotti come angurie e fagiolini, zucchine e melanzane sono entrati in difficoltà per l’arrivo sempre più massiccio di prodotti concorrenziali da Egitto e Tunisia. Ferro ad Avola non è il solo, se ne accorge quando nel maggio del 2011 incontra altri agricoltori siciliani in ebollizione, i futuri capi dei Forconi come Giuseppe Scarlata, Francesco Crupi che fa agrumi a Paternò, Martino Morsello di Trapani. Ci vuole poco a mettersi d’accordo…

L’altro ramo che pian piano si è fatto vivo – quello più intellettuale, diciamo così – sta intanto rimasticando l’autonomismo siciliano, una corrente di pensiero che come un fiume carsico ogni tanto torna a zampillare nell’isola come testimonia la storia del dopoguerra. “Dove ci incontravamo noi autonomisti? – si chiede Rossella Accardo, architetto dalla lunga storia colpita anche da una recente tragedia, la scomparsa dei suoi congiunti, il giallo dei Maiorana -. Ci vedevamo all’agriturismo di zio Tano, in casa di amici, nella sede dell’organizzazione di volontariato Ricreando, dai grillini a via di San Polo a Palermo. Chi c’era? I proseliti dell’Altra Sicilia, Massimo Costa docente di economia a Palermo e poi candidato alle comunali, amici catanesi, Salvatore Musumeci del Mis (Movimento di indipendenza siciliano). Ci lamentavamo di Lombardo, del suo Mpa, avevano sperato che volesse risolvere la questione siciliana, abbiamo poi visto tutti in che razza di fallimento è finito…”.

Rossella Accardo, che si definisce “bestia di piazza”, si divide oggi tra le azioni dei Forconi e la sua allucinante vicenda familiare. Sul fronte dei Forconi fa parte dello spezzone che fa capo a Francesco Morsello di Trapani che si è ritrovato separato dal grosso del movimento guidato da Mariano Ferro a causa proprio della presenza di Forza Nuova con Morsello (sua figlia è una militante dell’organizzazione estremista di destra).

Poi c’è il brutto giallo dei Maiorana che esplode il tre agosto del 2007 quando la vita di Rossella Accardo si ferma: a Isola delle Femmine, in un cantiere edile, quel giorno scompaiono nel nulla il suo ex marito e il figlio ventiduenne Stefano. Il ragazzo si è appena laureato in legge, il padre si occupa di edilizia nella provincia palermitana ed ha appena liquidato dal cantiere di Isola delle Femmine una ditta elettrica che, spiega Rossella Accardo, “poi risulterà legata al figlio del boss di Torretta Carini Salvatore Lo Piccolo, successivamente arrestato”. Ma non è finita lì: passano due anni e anche Marco, l’altro figlio di 22 anni, muore “suicida” nel giorno dell’Epifania del 2009. Il giovane è a casa della nonna, a Palermo. Dice che sale da un amico al piano superiore, lascia la porta accostata, lo ritrovano sfracellato sul selciato sotto l’abitazione.

Quando la incontro nell’estate del 2012 l’Accardo è reduce da un nuovo sopralluogo nel cantiere in cui sono scomparsi i suoi congiunti. “Vengo da quel posto maledetto, tra Capaci e Isola delle Femmine – dice -. Col mio legale Giacomo Franzitta abbiamo ripetuto test col georadar e col luminol. L’inchiesta gira a vuoto, mancano perfino i tabulati telefonici del socio di Salvatore Lo Piccolo…”.

Il giallo è irrisolto, il dolore anche, per fortuna ecco spuntare fuori i Forconi. Dall’estate del 2011 Rossella Accardo è di nuovo in pista con la sua vecchia passione autonomista. Incontra Francesco Crupi, un agrumicoltore autonomista, in una delle riunioni per l’attuazione dello statuto autonomo siciliano. “L’idea che germoglia tra noi è di fare qualcosa di forte, per i siciliani e non solo, i vespri siciliani del terzo millennio – dice -. Ci preme che la Sicilia si autogoverni, lo Statuto lo permette attraverso l’articolo 116 della Costituzione che assorbe la nostra carta costituente siciliana nel Trattato costituzionale. Noi puntiamo all’autosostenibilità del territorio. Chiediamo una sovranità monetaria, una sovranità agricola. Vogliamo che non entri più nulla che non sia prodotto in Sicilia. A mali estremi, estremi rimedi. Oggi registriamo infatti una contraffazione pazzesca e nessuno fa niente per impedirla. Si interviene magari per garantire i marchi degli stilisti, ma avete mai visto qualcosa sul fronte agricolo? Ecco all’inizio, con Francesco Crupi, ci eravamo riproposti di dare vita agli Indignados di Sicilia…”.

Settembre 201 1, queste varie anime – l’agricola e l’autonomista –si uniscono nel movimento dei Forconi che si è ufficializzato nella parte orientale dell’isola, all’altezza di Avola, Modica, Ragusa. Il 20 settembre sono già in cinquemila a Palermo sotto il palazzo dell’Assemblea regionale siciliana. “La marcia era partita da piazza Verdi – ricorda l’Accardo -. Le strade erano strapiene di rivoltosi con magliette e cappellini azzurri. Il logo è quello diventato poi noto, l’immagine della Sicilia con due forconi incrociati. Via Maqueda, i Quattro Canti, corso Vittorio Emanuele, l’Ars. E la gente che ci diceva: “Facite bene…”. Un corteo nato dalla terra e che già calamitava altre categorie, dai commercianti ai camionisti. E poi le manifestazioni si sono moltiplicate, col picco raggiunto a gennaio 2012 quando abbiamo stretto il patto con i camionisti di Pippo Richichi, il catanese di Forza d’urto, presidente degli autotrasportatori. Allora dalla notte del 16 gennaio sono scattate le nostre cinque giornate. La Sicilia si è bloccata. A Palermo abbiamo messo un camper a piazzale Oreto. Alle tre del mattino ai depositi Eni di Brancaccio abbiamo iniziato a bloccare le autocisterne in uscita. Un presidio con i falò…”.

Nocciolo della protesta resta la situazione agricola, è quello il punto di partenza. Se ne rende conto anche il ministro dell’agricoltura del governo Monti, Mario Catania. “Lo abbiamo incontrato mentre partecipava ad un convegno sull’agricoltura – dice Mariano Ferro -. Gli abbiamo chiesto un controllo contro le contraffazioni agricole. Perché non adottate una legge seria che sanzioni i taroccatori, gli abbiamo chiesto. Perché non colpite più duramente le aziende colte sul fatto, magari con cinque anni di chiusura?”.

Mariano Ferro ribolle ancora ripensando alla risposta che riferisce così: “Il ministro ci ha guardato, poi ci ha indicato Bersani , Casini e Alfano che erano presenti al convegno e ci ha detto. Non posso promuovere niente, tanto quei tre lì non me la fanno passare in parlamento, temono le lobby…”.

E poi? Ecco la spaccatura, improvvisa, i Forconi diventano due. Da una parte Mariano Ferro con tutta la Sicilia orientale, dall’altra Morsello con quella orientale. A scatenare la separazione contribuisce la presenza sempre più ingombrante di Forza Nuova nel movimento, l’epicentro è Trapani. La goccia che fa traboccare il vaso è però formalmente un’altra: il 12 gennaio Morsello va zitto zitto a depositare uno statuto dei Forconi. Gli altri dirigenti non ne sanno niente. Riunioni infuocate, alla fine Morsello viene espulso. Ma quelli che si riuniscono intorno a lui non demordono e si presentano alle successive comunali, i risultati però sono mediocri. A Palermo Rossella Accardo si ferma a 800 voti, a Marsala Morsello ne raccoglie 1000, altrettanti Scalici a Raffadali.

Segue una pausa, il movimento riprende all’inizio dell’estate, Ferro se ne va a bloccare con i suoi la Salerno-Reggio Calabria, sei giorni di nuova protesta. E poi ecco la crisi dell’Assemblea regionale, le dimissioni di Lombardo, le nuove elezioni in ottobre…

“I Forconi restano in campo – spiega Mariano Ferro -. La nostra stella polare è l’attuazione dello statuto dell’autonomia. Certo, non ci possiamo chiudere in Sicilia, però vogliamo maggior rispetto per questa bella isola. Se qui fosse al potere la Lega nazionalizzerebbe i pozzi di petrolio, imporrebbe dazi sul gasdotto che dall’Algeria porta metano in mezza Italia…A noi dateci almeno una compensazione…”.

I Forconi hanno fatto tremila chilometri di marcia chiamando a raccolta i 5 milioni e mezzo di siciliani. La loro carovana di 100 forconisti è stata accolta trionfalmente in parecchi posti, da Nicosia a Licata ma anche davanti al tribunale di Catania. “La stampa però è contro di noi – si lamenta Ferro -. Ci trattano da mafiosi. Va n po’ meglio con le tv locali. Ma quando siamo andati a Capaci per rendere omaggio a Falcone e agli altri caduti la polizia ci ha cacciato via. Come se fossimo degli appestati…”.

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