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Per Mauro Rostagno. Il 2 febbraio a Palermo il processo ai suoi assassini

Il gup di Palermo Ettorina Contino ha rinviato a giudizio il boss mafioso Vincenzo Virga e Vito Mazzara, capomafia di Valderice (Trapani) per l’omicidio di Mauro Rostagno, ucciso il 22 settembre 1988 nei pressi di Trapani.

Dopo una breve camera di consiglio, il giudice per le udienze preliminari ha accolto la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dal pm Gaetano Paci. Secondo l’accusa, Virga è il mandante dell’omicidio mentre Mazzara è uno degli esecutori materiali. Ad inchiodarli una perizia balistica eseguita per due volte e che collega l’omicidio Rostagno ad altri delitti di mafia per i quali Virga e Mazzara stanno scontando la pena all’ergastolo.

La prima udienza del processo si terrà il 2 febbraio 2011 davanti alla Corte d’Assise di Palermo.

La decisione del Gup Ettorina Contino arriva 22 anni dopo quel delitto. Mauro Rostagno è stato ucciso per tutto ciò che denunciava su Rtc, un’emittente locale attraverso la quale aveva descritto i rapporti tra Cosa nostra e il sistema di potere trapanese, smascherandone gli interessi e gli affari illeciti. La sua attività di contrasto e sensibilizzazione alla lotta alla criminalità, che secondo il pentito Francesco Milazzo “dava fastidio”, fu interrotta la sera del 26 settembre 1988 a Valderice, quando a bordo della sua auto fu raggiunto dai colpi di fucile calibro 12 esplosi a breve distanza.

In settembre, pochi giorni prima del nuovo anniversario della morte di Mauro, avevo scritto alcune considerazioni sulle inchieste condotte in tutto questo tempo con l’aggiunta di alcuni ricordi personali. Le ripropongo ora (sopra la foto di Chicca Roveri a una manifestazione, con sulle spalle Maddalena).

Per Mauro Rostagno

“Era il settembre del 1988. Il 26 settembre. E nella campagna trapanese veniva ammazzato Mauro Rostagno. C’è oggi un rinvio a giudizio per questo omicidio di mafia. A ordinarlo è stato il boss trapanese Vincenzo Virga, Totò Riina lo approvò, i killer fecero il resto.  Ma c’è voluta tanta fatica per arrivare a questo punto.

Queste infatti sono oggi le conclusioni di un’inchiesta che ha attraversato, in passato, momenti davvero bui alimentati da personaggi oscuri come alcuni inquirenti, ufficiali dei carabinieri che hanno cercato di addossare la morte di Mauro Rostagno alla stessa organizzazione a cui vent’anni prima lui aveva appartenuto con intelligenza ed entusiasmo, Lotta Continua.

La tesi di questi inquirenti era stata che Rostagno era stato messo a tacere dai suoi stessi compagni perché minacciava di dire chissà cosa sull’omicidio Calabresi.  Inquirenti così, come quelli che su Impastato avevano costruito piste fasulle.

Poi è avvenuto perfino un salto di qualità: quella tesi orrenda fu addirittura intrecciata e resa compatibile con un’ulteriore infamia, l’accusa di un omicidio ordito dentro la Comunità Saman dalla sua stessa compagna Chicca Roveri che venne arrestata.

A lei un giornalista tanto notorio quanto spiccio  appiccicò con tranquillità il nome di Clitennestra. Le tragedie greche sono buone per tutte le stagioni.

Non sono mancati infine altri personaggi squallidi minori, qualcuno con tanto di postazione fissa in giornali e trasmissioni tv di estrazione democratica, che hanno intinto il loro pennino in questa miseria. Uno per tutti, Marco Travaglio.

Un vero schifo.

Eppure la verità non era difficile da trovare, tanti uomini pentiti della mafia hanno detto nel tempo con chiarezza quello che sapevano. Ma per l’allora capitano Elio Dell’Anna, del Ros di Trapani, queste erano solo fantasie. Lo erano anche per un altro ufficiale, un maggiore di cui non ricordo più il nome. Solo un poliziotto di rango, il vicequestore Rino Germanà, aveva subito imboccato la pista giusta ma poi avevano prevalso altri inquirenti.

Eppure, viene da ripetere, era facile scoprire perché il conduttore della tv che attaccava la mafia era stato ucciso da Cosa nostra.

L’auto usata era stata rubata sei mesi prima, ben prima che “scoppiasse” il caso Calabresi con l’arresto di Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi incarcerati due mesi prima dell’uccisione di Mauro Rostagno.

Per sei mesi l’auto era stata dunque custodita in un autoparco della mafia. Quell’auto era stata parte di un piano ordito con tempi lunghi e certamente molto prima che scoppiasse il caso Calabresi.

E poi ancora: l’uomo che aveva interrotto l’energia elettrica sul luogo dell’attentato è risultato essere un operaio legato al boss Virga.

E ancora, l’arma usata per uccidere Mauro. A lungo era stato sostenuto che l’arma impiegata contro di lui fosse stata un fucile qualunque, ma poi la perizia balistica ha provato che a sparare furono armi efficienti; e il confronto, alla fine eseguito, con l’archivio dei proiettili custoditi dai carabinieri, ha mostrato che quelle stesse armi furono impiegate, prima e dopo, in altri attentati di mafia.

Infine il racconto di tanti pentiti, a partire da Marino Mannoia, che hanno sostenuto con molta chiarezza che quello era stato un omicidio di mafia.

C’è stato Vincenzo Sinacori che ha raccontato perfino di aver partecipato, latitante, a un colloquio a Castelvetrano tra Francesco Messina Denaro e Francesco Messina, che avrebbero assegnato alla cosca trapanese l’incarico di ammazzare Rostagno.

Antonio Patti e Enzo Brusca hanno poi relazionato sull’insofferenza di Cosa Nostra per le inchieste di Rostagno contro gli uomini di Riina in provincia di Trapani, e delle felicitazioni di Riina dopo l’omicidio.

Francesco Milazzo ha riferito che Francesco Messina gli disse: “Per Rostagno abbiamo sistemato tutto”.

Eppure la pista interna fu solleticata a più riprese, in ultimo dall’avvocato dei “pentiti” Luigi Ligotti oggi parlamentare dell’Idv, che durante il processo a Sofri, Pietrostefani e Bompressi puntò con impudenza il dito contro Lotta Continua, costringendo l’avvocato Marcello Gentili ad abbandonare l’aula in segno di protesta per queste infami insinuazioni.

E per concludere, questa tesi ha trovato eco anche in un libro di un ex trentino, un personaggio di piccolissimo calibro, che ha goduto a sostegno della faccina di Marco Travaglio.

Povero Mauro. Gli devo un mese indimenticabile della mia vita quando la segreteria di Lotta Continua – era il 1975 – aveva deciso di seguire più da vicino le vicende davvero straordinarie di quel movimento di lotta per la casa che Mauro aveva messo in piedi a Palermo.

Prima di conoscere però quelle due, trecento donne che prendevano la testa dei cortei per la casa dentro Palermo e che stravedevano per  quell’agitatore barbuto e instancabile bisogna che rivada a un gesto d’amore per quella terra che Mauro mi volle regalare.

Scendemmo una sera da casa sua, a Palermo, ed era primavera. Lui mi indicò un vicino giardino di aranci in fiore. Entrammo. E come faceva Leone Trotski quando fermava i treni dell’Armata Rossa per declamare una poesia alla luna quella sera Mauro mi decantò con parole che non saprei più riferire l’anima delle zagare, i fiori degli aranci così inebrianti, in un’ubriacatura di profumi e sensazioni. Ecco il regalo.

Poi c’erano i cortei, soprattutto quelli notturni con un’infinità di piccole “apette” con sopra un paio di materassi e reti, per andare alla conquista dei palazzoni che stavano sorgendo alla periferia di Palermo. Una fiumana di donne e uomini usciva dai “catoi” del Capo, di Ballarò, di Albergheria ma anche dalla Vucciria e dalla più distante Resuttana, e andava alla conquista di un nuovo mondo. Li guidava, con coraggio e ostinazione, Mauro. Era il movimento per la casa dei proletari di Palermo, quelli che poco più in là a dicembre avrebbero occupato la cattedrale e ottenuto il sostegno inaspettato del cardinale Pappalardo.

Ricordo che già allora il rischio si profilava davvero molto grosso – questo credo di aver poi riportato indietro dal mio viaggio –  perché quel movimento per la prima volta faceva staccare uomini e donne di quella poverissima Palermo dai loro datori di lavoro abituali, i mafiosi e i capomandamento. Ma Mauro faceva spallucce, già allora. Non aveva paura di niente e di nessuno. Le donne, anzi quel “donnoni”, andavano al palazzo delle Aquile gridando in corte: “sindacu cunnutu preparati u tabutu”, dove il tabutu sta per bara. E Mauro rideva…

La prima volta che l’avevo visto era stata a Pisa dove nel dicembre del ’68 durante un’epidemia di occupazioni di istituiti superiori della Toscana organizzammo un convegno per gli studenti medi. Ricordo la delegazione di Torino, liceali dall’eloquio preciso e dall’aspetto ben coltivato. O i pavesi, più ruspanti. Mi colpì all’improvviso quell’ondata piena di roba un po’ americana e un po’ tedesca che venne giù dagli scranni più alti dell’aula di ingegneria in cui eravamo riuniti, quando a nome dei trentini prese la parola, torrentizia e disarticolante, Mauro Rostagno. Credo che restammo in parecchi sbalorditi da tutti quei concetti sufficientemente arditi che quel giovane coetaneo barbuto e musicante ci faceva piovere addosso. Non ricordo i concetti, ricordo lo stupore e l’ammirazione.

Tante le vite di Mauro, l’ho incontrato poi quando tornò da Poona e ci incrociammo vicino a casa mia, a Trastevere. Aveva al collo quel medaglione con la faccia di un guru che andava allora per la maggiore. Siccome non mancai di farglielo presente, insomma ci scherzai un po’ su, mi rispose a modo suo. Non ricordo come mi mandò a quel paese, ricordo solo che non mancò di suscitare in me però gli stessi sentimenti di sempre. Insomma stupore e ammirazione.

Dedico dunque questo povero scritto alla sua memoria. E a Maddalena che gli assomiglia così tanto come testimonia quell’autoscatto che vedete fatto da bambina,  e al nipotino Pietro che ha avuto un nonno di questa grandezza.

C’è un bel filmato che lo fa rivivere, con tanto di cappello bianco in testa, gira sulla rete e su facebook.

E’ un modo  per rivederlo ancora e per potergli dire: ciao Mauro”.

Paolo Brogi

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