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L’Unità sul libro di Angela Camuso “Mai ci fu pietà”, storia della banda della Magliana

Mai ci fu pietà, storia della banda della Magliana dal 1977 a oggi riflette due cose tipiche del gusto giornalistico dell’autrice, la collega Angela Camuso. Il primo: il lavoro in presa diretta, il racconto, le testimonianze delle vittime e il linguaggio dei banditi. Carnefici, nel caso dei sequestri di persona conclusi male, come quello del duca Grazioli Lante della Rovere, che mai fece ritorno a casa. La lingua viva di criminali che mostrano cinismo e volgarità ma anche pochezza e confusione. Il secondo elemento è collegato al primo: cercare di capire come fu possibile che questa banda dove matureranno personaggi di spicco ma che all’inizio è un aggregato di elementi balordi, riesca a costruire relazioni e appoggi in ambiti istituzionali, politici, religiosi, di amministrazione della giustizia. In questa direzione Angela Camuso scava con molta determinazione, scoprendo risvolti oscuri e anche un mondo di millantatori o pseudomillantatori. I testaccini La banda della Magliana, in realtà – ha spiegato il procuratore Capaldo in una delle presentazioni del libro – è un marchio, una definizione giornalistica, sotto la quale si sono catalogati nel tempo gruppi diversi: i testaccini, poi quelli di Acilia, Ostia e i gruppi minori. Il gruppo che riuscì a costruire relazioni forti con poteri della città è quello dei testaccini, per il caso Orlandi come per altri casi. Il procuratore Capaldo, che naturalmente nulla rivela sulle nuove indagini incorso, suggerisce, però, una lettura storica dell’apice raggiunto dalla banda all’epoca del sequestro Orlandi. Bisogna chiedersi perché finisce all’inizio degli anni Novanta il potere del gruppo criminale declina. Interrogativo a cui oggi si può cercare risposta perché, nel frattempo molto è cambiato, a palazzo di giustizia come in Vaticano, nell’opoinione pubblica più accorta e nei poteri politici. È, quindi, in queste due direzioni che si sviluppa il libro di Angela Camuso che, con un lavoro meticoloso sui documenti giudiziari e su sentenze ormai inappellabili, ha tirato fuori carte inedite e ravvivato il ricordo di fatti criminosi attraverso la testimonianza delle vittime. Le testimonianze Prima di tutto quella del gioielliere Roberto Giansanti, rapito il 16 maggio 1977. E che rivela i dubbi e le paure legati al fatto che proprio una figura chiave del gruppo che lo rapì, Franco Giuseppucci, era tenuto d’occhio ed era stato visto da una macchina della polizia davanti al suo negozio, quindici giorni prima del rapimento. È il pentito Claudio Sicilia, racconta Camuso nel libro, a rivelare nel 1986: «le informazioni necessarie per sequestrare il gioielliere le diede Franco Giuseppucci». Il problema è che, denuncia oggi Giansanti, «fra le foto segnaletiche che mi furono mostrate dopo la liberazione, Giuseppucci non c’era. E io lo riconobbi per caso, vedendo una sua al comando dei carabinieri. Lo riconobbi percHè l’avevo notato davanti al mio negozio, per via di un occhio di vetro». ROMA jbufalini@unita.it

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