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Una lettera di vent’anni fa. Beniamino Placido alla figlia sugli azionisti e sul non cedere mai

Una lettera di vent’anni fa, ma vera anche oggi.

QUANDO SOGNAVAMO GIUSTIZIA E LIBERTÀ
Lettera di Beniamino Placido alla figlia Barbara
da:la Repubblica di lunedì 8 febbraio 2010
Carissima Barbara, ho voglia di raccontarti tantissime cose (due o tre almeno) ma non so da che parte incominciare. Comincerò allora con un fatto antico, antichissimo, quasi un episodio d´infanzia: che potrebbe, dovrebbe (vorrebbe?) commuoverti.
Nei primissimi anni del dopoguerra c´era in Italia una cosa bellissima: il Partito d´Azione. In Lucania l´aveva fondato zio Valentino, con altri giovani antifascisti. Altri antifascisti – giovani o meno giovani – l´avevano fondato in tutta Italia. Il Partito d´Azione veniva fuori da una tradizione degnissima. Dal gruppo di “Giustizia e Libertà”; che era stato fondato da Carlo e Nello Rosselli, due meravigliosi antifascisti fiorentini, che il Fascismo aveva fatto uccidere: esuli in Francia. Il Partito d´Azione è stato l´unico gruppo politico organizzato a fare del vero attivo antifascismo, durante il ventennio, accanto al Pci. I suoi rappresentati avevano fondato il Non Mollare, quando tutti mollavano. Poi andarono, uno dopo l´altro, in galera e ci rimasero per un bel po´. Ernesto Rossi, l´economista ( autore di Abolire la miseria; I padroni del vapore, Settimo non rubare) anche per tredici anni di fila.
Chi ha fatto la resistenza? Due gruppi politici: i comunisti e gli “azionisti” (che venivano anche chiamati sprezzantemente “visipallidi” perché non avevano la faccia contenta e biscottata alla Berlusconi). In che cosa gli “azionisti” erano diversi dai comunisti? In questo: volevano la Giustizia, ma volevano anche la Libertà.
Benedetto Croce diceva che non era possibile. Che se tu vuoi proprio la Giustizia, l´Uguaglianza, finirai fatalmente col rinunciare alla libertà. Farai la fine della Russia di Stalin. Gli “azionisti” erano fermamente avversi alla Russia di Stalin. Mai, neppure per un momento, cedettero alle fiabesche sciocchezze che sulla Russia comunista i comunisti italiani allora dicevano. E che si sono dimostrate sanguinosamente false.
Questo li rendeva invisi a Dio ed ai nimici sui. Ai conservatori come ai comunisti ortodossi (con i quali conservarono però sempre un rapporto di affettuosa, rissosa familiarità). Nel Partito d´Azione militavano tutti (o quasi tutti) gli intellettuali italiani di quegli anni. Quelli grandi, di cui non ti faccio i nomi perché non ti direbbero nulla (De Ruggiero, Omodeo, Arturo Carlo Jemolo, Calamandrei, Codignola) e tanti altri più piccoli. Anche per questo, anche per questo prestigio, il Partito d´Azione ebbe subito fortuna, in tutto il Paese. Che aveva contribuito a liberare dai fascisti e dai nazisti.
Pensa che a Rionero, paesino di dodicimila abitanti, la sezione fondata da zio Valentino contava seicento iscritti. Poi cosa accadde? Accadde che questi intellettuali si misero a litigare fra di loro. Arrivò la scissione, consumata in un dolorosissimo, drammaticissimo congresso a Roma, al Teatro Italia (che si trova intorno a Piazza Bologna).
Il Partito d´Azione si sciolse. I suoi rappresentati più bravi si distribuirono tra i vari partiti della sinistra italiana. E vi hanno fatto le cose migliori. Cosa sarebbe stato il Partito Repubblicano italiano senza Ugo La Malfa? Cosa sarebbe stato il Partito Socialista italiano (quello di Nenni, non quello attuale di Craxi) senza Riccardo Lombardi? E questi nomi forse ancora dicono qualcosa (spero) a quelli della tua generazione.
Il Partito d´Azione si sciolse, ma non si dissolsero nel nulla i suoi componenti: anche quelli più piccoli, in ogni senso. Continuarono ad operare nella società civile, dentro e fuori i partiti, dentro e fuori le Università, dentro e fuori i sindacati. Mai rassegnandosi all´ondata di restaurazione che intanto era arrivata. La prima delle tante ondate di restaurazione che di tanto in tanto affliggono il nostro Paese. Ondata di restaurazione propiziata da un enorme imperdonabile errore del Partito comunista di allora: presentandosi come paladino della Russia di Stalin – che aveva impiccato abbondantemente, che continuava ad impiccare allegramente – i comunisti resero più agevole l´inondazione democristiana del 18 aprile 1948. Inondazione che perdura; dalla quale cerchiamo faticosamente di riemergere.
Fra quegli “azionisti” c´era anche il tuo papà: piccolo, piccolissimo allora; piccolo, piccolissimo sempre. E che non ha mai dimenticato quel giorno lontano. Quando la notizia ufficiale dello scioglimento arrivò. Quando la sezione del Partito d´Azione di Rionero fu chiusa. Quando quelle bandiere gloriose, ardimentose (le bandiere del Partito d´Azione erano rosse, con lo stemma di G. iustizia e L. ibertà) nel mezzo: gli azionisti si chiamavano “compagni”) si ammonticchiarono nel cortile della nonna: dove erano state portate amorosamente da zio Valentino. E poi furono mandate al macero. Mai dimenticato.
Perché morì il Partito d´Azione? Ce lo si è chiesto molte volte. Dedicò all´interrogativo le sue riflessioni Palmiro Togliatti. Forse abbiamo una spiegazione. Che potrebbe interessare l´antropologo. Morì perché terribilmente astratto. Composto da intellettuali, aveva l´intellettualistica convinzione che gli uomini fossero fatti di sola razionalità. E che quindi bastasse fare appello alla loro ragione per convincerli a votare. Gli uomini (tutti gli uomini e tutte le donne: anche noi, non solo “gli altri”) sono fatti anche di miti, di pulsioni profonde e inconfessabili, di ambizioni, di interessi. In una cosa invece il Partito d´Azione aveva ragione. Così come «non si fa la poesia con i sentimenti, ma con le parole» (l´ha detto Paul Valery) non si costruisce la società giusta con i sentimenti, siano pure i più nobili, ma con le articolazioni istituzionali.
Ed è questo che avrei voluto dire agli studenti dell´Università di Roma; è questo che vorrei dire a tutti coloro che stanno dentro a questo dibattito sulla nuova sinistra da costruire: a quelli del no, a quelli del sì, a quelli del forse. Lo avrei detto – tanto per cambiare – nella forma di un raccontino. Che si riferisce anch´esso – tanto per non cambiare – alla mia “infanzia” lucana. Il racconto ha una premessa. La seguente. Non è che sia venuta meno in noi la voglia di volare. Negli “azionisti” non viene mai meno. E adesso tu sai che tuo padre è un “azionista”: non nel senso finanziario del termine, fortunatamente. No, la voglia di volare alto, di non strisciare per terra, di non vegetare, è sempre quella. Ma come si fa a volare? Quand´eravamo ragazzi, a Potenza, ci pensavamo sempre, talvolta ne parlavamo. Una volta, passeggiando passeggiando, ci trovammo sul ponte di Montereale, che è altissimo e maestoso. Uno di noi, che si chiamava Brucoli – e quindi era della dinastia dei gelatai di Potenza, e quindi apparteneva alla buona società potentina – ad un certo punto si affacciò dalla spalletta del ponte, guardò in giù (cinque metri di altezza). Poi prese il suo bastone – si poteva permettere di andare in giro con un bel bastone liberty fra le mani – e lo buttò. Poi chiese a noi – che con lui ci eravamo affacciati a guardare nella valle sottostante – ha volato il mio bastone? Si è fatto forse male? E allora volerò anch´io. Si buttò giù, e si ruppe tutte e due le gambe.
La voglia di volare – generosa e legittima – che animava i comunisti classici, che anima oggi alcuni gruppi di studenti, rassomiglia a questa. Non porta da nessuna parte. Solo ai disastri, personali o collettivi. Abbiamo imparato poi a volare. Ma rispettando le leggi di gravità, non violandole. Ma rassegnandoci ad essere – paradoss
almente – più pesanti dell´aria, senza illuderci di poter mai diventare più leggeri. Ma costruendoci dei dispositivi artificiali e complessi: estremamente artificiali, estremamente complessi. Che non ci danno la soddisfazione del volo umano, ma ci fanno andare per aria, a rispettabile velocità.
E non è questa la civiltà, non è questo il progresso? La civiltà è una continua costruzione di protesi, un assiduo artigianato ortopedico. Per correggere l´inuguaglianza di partenza nel senso dell´uguaglianza; per correggere le ingiustizie di base nel senso della giustizia. Non ci si può aspettare che la libertà di stampa arrivi solo perché da qualche parte qualcuno si illude di aver costruito, o trovato, o inventato l´”uomo nuovo”. Solo perché è stato eliminato il capitalismo. Come pensavano i comunisti dell´altro ieri. Come pensavano quegli studenti di ieri. Questo vale a maggior ragione per la libertà di stampa: che si costruisce – e si custodisce – non con gli esorcismi verbali all´indirizzo del capitalismo, ma con un artigianale lavoro di revisione delle leggi. Tenendo conto di resistenze, inerzie, interessi, eccetera.
Cara Barbara, non sono sicuro che questi uomini di sinistra del “forse” siano migliori di quelli del “sì”, e di quelli del “no”. Però sono la mia cultura, la mia biografia, la mia storia, hanno qualcosa del vecchio (e mai morto) spirito azionista. Provarci sempre, non cedere mai. Senza paura di fare. Senza paura di sbagliare.
Un abbraccio
dal tuo papà
Roma, domenica 11 febbraio 1990

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