Informazioni che faticano a trovare spazio

La diga della Salini in Etiopia che sconvolge la vita a 200 mila abitanti

 Riprendo dal Corriere della sera online:

 

Appello di Survival per fermare i lavori. I costruttori: «allarmi ingiustificati»

Una diga lascia a secco 200mila etiopi

L’impianto, realizzato dall’italiana Salini, blocca le piene del fiume Omo che alimentano agricoltura a pascoli

Appello di Survival per fermare i lavori. I costruttori: «allarmi ingiustificati»
Una diga lascia a secco 200mila etiopi
L’impianto, realizzato dall’italiana Salini, blocca le piene del fiume Omo che alimentano agricoltura a pascoli

Un'immagine della Valle dell'Omo
Un’immagine della Valle dell’Omo

MILANO – Su oltre 200mila persone che in Etiopia già non se la passano bene incombe un’ombra gigantesca, che parte dall’Italia. Si chiama Gibe III: è una diga alta 240 metri il cui bacino si allungherà per 150 km. Posizionata nella bassa Valle dell’Omo (vedi mappa), e realizzata dall’italiana Salini Costruttori, questa struttura mastodontica, destinata a diventare la più grande dell’ Africa, muterà drasticamente la portata del fiume Omo, principale affluente del Lago Turkana del Kenya, eliminando il naturale ciclo delle piene e mettendo a repentaglio coltivazioni e pascoli dell’intera area. Il Gibe III è il nuovo passo che seguirà il Gibe II, impianto con un tunnel lungo 26 chilometri che genera elettricità, sfruttando la differenza di altitudine tra il bacino della diga Gibe I e la sottostante valle dell’Omo.

Il ministro Frattini in Etiopia alla presentazione del tunnel Gibe II,  il 13 gennaio
Il ministro Frattini in Etiopia alla presentazione del tunnel Gibe II, il 13 gennaio

Anche questo impianto è stato realizzato dalla Salini, che ha messo a frutto il più grande contributo versato dalle casse italiane per un progetto all’estero: 220 milioni di euro. Almeno in parte spesi male, visto che un pezzo di questo tunnel, inaugurato il 13 gennaio scorso alla presenza del ministro degli Esteri Franco Frattini, dopo 12 giorni è crollato (vedi video) interrompendo subito il flusso di elettricità che, nelle parole del ministro «avrebbe dovuto cambiare la vita all’Etiopia». E invece Meheret Debebe, capo dell’Ethiopian Electric and PowerCorporation (EEPCo), l’ente elettrico etiope, ha invitato la gente a «comprendere il problema e risparmiare energia finchè il guasto non sarò risolto».
I DANNI – Ma quella è storia passata. Ora all’orizzonte c’è quella della diga Gibe III che rilancia rischi enormi sulla testa delle popolazioni indigene della valle dell’Omo legati alla scomparsa del naturale ciclo delle piene. Danni esclusi però dalla Salini già nello scorso gennaio, in una dichiarazione pubblicata su Panorama: «Abbiamo previsto rilasci d’acqua controllati a beneficio dell’agricoltura e progettato l’invaso in modo che si riempia a una velocità compatibile con la quantità delle piogge. Questa è un’occasione per trasformare l’Etiopia in un esportatore di energia, se l’Italia non farà la sua parte la faranno i cinesi, che si sono già aggiudicati la costruzione della diga Gilgel Gibe IV». Prendere o lasciare quindi. Ma i rischi a cui vanno incontro le popolazioni indigene sono invece confermati in un dossier realizzato da International River, che studia e tutela i diritti delle popolazioni che vivono sugli argini dei fiumi: «Gli agricoltori locali piantano le colture lungo le rive del fiume dopo ogni piena annuale. Queste ridanno anche vita ai pascoli per il bestiame e segnano l’inizio della migrazione dei pesci. Se non si fermeranno i lavori e non si interverrà con adeguate misure di mitigazione, la diga provocherà carestie croniche, problemi di salute, dipendenza dagli aiuti umanitari, e un generale disfacimento dell’economia della regione e della stabilità del suo tessuto sociale, in un ambiente ecologicamente già di per sè molto fragile».
APPALTO E COSTRUZIONE – I lavori di costruzione sono iniziati nel 2006: la Salini ha aperto il cantiere in accordo con il governo etiope che ha approvato l’appalto a trattativa diretta, senza alcuna gara e quindi senza comparazione delle offerte. «Nella fretta di procedere – si legge ancora nel dossier di International River – il governo ha omesso di valutare tutti i rischi economici, tecnici e d’impatto

(dal sito della Bbc, clicca per ingrandire)
(dal sito della Bbc, clicca per ingrandire)

ambientale e sociale, violando leggi interne e standard internazionali. Inoltre non ha preso in considerazione gli effetti legati ai cambiamenti climatici, che sul lungo termine potrebbero incidere drammaticamente sulla capacità produttiva della diga. Oggi sono stati effettuati studi postumi alla costruzione per confermare una decisione presa anni fa». L’unica valutazione di impatto ambientale è stata fatta a posteriori, a cantiere già aperto. «Al di là di questa anomalia, che non è di poco conto – commenta Marco Bassi, antropologo italiano dell’università di Oxford appena rientrato dalla Valle dell’Omo, dove studia le culture indigene – non si tratta di uno studio degno di questo nome. L’ho verificato di persona quando mi sono trovato nelle aree indicate dalle mappe della relazione: non sono segnati i villaggi, non si traccia in modo preciso la distinzione tra zone agricole e selvatiche mentre quelle a pascolo non sono nemmeno indicate. Come si può pensare che ci siano certezze che una diga di quelle dimensioni funzioni in modo da salvaguardare le economie di sussistenza della popolazione? La verità è che le tribù dei Kara e dei Kwegu che vivono lungo il corso del fiume sono condannate all’estinzione e anche tutte le altre che abitano sul delta vedranno compromesse le loro fonti di sostentamento». AFFITTO DELLE TERRE – Oltre ad accarezzare l’idea di vendere energia elettrica al Kenya, nella Valle dell’Omo il governo etiope progetta di affittare vaste aree di terra indigena a compagnie e governi stranieri per coltivazioni agricole su larga scala, biocarburanti inclusi. Si tratta di circa 120mila ettari, un business colossale. E da qui arriva la spinta alla costruzione di Gibe III: per l’irrigazione verrà attinta acqua dalla diga. La maggior parte dei popoli colpiti non sa nulla del progetto e il governo sta l
avorando contro le organizzazioni tribali a loro insaputa. L’anno scorso, nella parte meridionale del paese le autorità hanno sciolto almeno 41 associazioni locali rendendo impossibile il dialogo e lo scambio di informazioni sulla diga tra le varie comunità. «Per le tribù della valle dell’Omo – ha detto Stephen Corry, direttore generale di Survival International, associazioni che tutela le popolazioni indigene – la diga Gibe III sarà un cataclisma di ciclopiche proporzioni. Perderanno le loro terre e tutti i loro mezzi di sussistenza. Nessun ente degno di rispetto dovrebbe finanziare questo atroce progetto».
LA CAMPAGNA DI SURVIVAL E LA REPLICA DELLA SALINI – Per prevenire le conseguenze catastrofiche del progetto, Survival ha lanciato una campagna internazionale in cui chiede al Governo etiope di sospendere i lavori di costruzione e raccomanda ai possibili finanziatori – tra cui la Banca Africana di Sviluppo (AfDB), la Banca Europea per gli Investimenti (BEI), la Banca Mondiale e anche il Governo italiano attraverso la Cooperazione allo Sviluppo – di non sostenere il progetto. A questa iniziativa si sono associate la Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, Counter Balance coalition, Friends of Lake Turkana e International Rivers. La Salini replica in modo netto: «Siamo di fronte all’ennesima azione irresponsabile e priva di fondamento tecnico e scientifico contro il progetto Gibe. Tutte le affermazioni critiche contenute nell’appello di Survival, infatti, per quanto possano apparire suggestive ai non addetti ai lavori, o sono false o sono frutto di elementari errori aritmetici e tecnici se non addirittura di macroscopici errori di fatto» (leggi il comunicato di Salini costruttori in versione integrale). Un fatto, che non rassicura, resta certo: le popolazione che vivono nella Valle dell’Omo, fino a quando hanno visto comparire le ruspe, sono rimaste all’oscuro della diga che incombe sulla loro testa.

Stefano Rodi
23 marzo 2010© Corriere della Sera 

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