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Massimo Ciancimino: c’era sempre tra noi il signor Franco, dei Servizi…

C’è una figura molto interessante che si staglia dentro il libro “Don Vito- Le relazioni segrete tra Stato e mafia nel racconto di un testimone d’eccezione” (appena uscito per Feltrinelli) scritto a quattro mani da Massimo Ciancimino e da Francesco La Licata, l’inviato della Stampa. E’ il signor Franco, uno dei servizi, amico anche del conte Vaselli come spiega Massimo Ciancimino. Onnipresente, un po’ come l’ingegner Verde che era Bernanrdo Provenzano. Il signor Franco è lo Stato a Palermo. Chi è questo signor Franco? Perché non ce lo spiega qualche autorità del Viminale e dintorni? A parte il “papello” che i vertici del Ros in Sicilia, il generale Mori e i suoi attachés, stavano contrattando con la mafia, bisognerebbe forse saperne un po’ di più anche sulle attività del signor Franco a partire dal suo nome e cognome. O forse lavorava per gli americani, Cia, Fbi? Ecco di seguito uno stralcio in questione dal libro sul signor Franco:

La fine dell’avventura

È proprio stupefacente la figura del signor Franco,
presenza continua, burattinaio sfuggente e occulto
dell’intera attività politica e imprenditoriale di Vito
Ciancimino. Massimo racconta di averlo visto “sempre
accanto a mio padre”, anche andando molto indietro
nel tempo.

MASSIMO

: Non ricordo neppure il momento esatto

dell’incontro col signor Franco. Il fatto è che io me li
rammento sempre insieme. Esattamente come per il
signor Lo Verde: due presenze con il tempo divenute
proprio familiari.
Nell’ultimo periodo di confidenza, mio padre mi
parlò dell’origine avventurosa di questo personaggio.
Mi disse che nel mondo esistono le persone fortunate
e Franco, secondo lui, lo era stato. Come sempre, non
raccontava tutto in modo completo e comprensibile.
Quasi sempre teneva qualcosa per sé, rendendo poco
chiaro il suo racconto. Per quel che ho capito, legava
la “fortuna professionale” di Franco alla tragedia di
Montagnalonga, una sciagura aerea avvenuta all’aeroporto
di Punta Raisi nel 1972. Il bilancio delle vittime,
secondo la sua ricostruzione, 114, riservò un giallo
mai risolto: il numero dei corpi recuperato non coincideva
con quello della lista ufficiale dei passeggeri:
115. In sostanza all’appello mancava un nome, quel-

lo – sembra – di un agente dei servizi segreti specializzato
nelle vicende siciliane. Il ruolo di questo alto
funzionario, mai identificato, sarebbe stato trasferito
al signor Franco, allora giovane in carriera. Questo
raccontava mio padre, aggiungendo che la sua frequentazione
con lo 007 si intensificò all’epoca in cui
Franco Restivo era ministro dell’Interno.

Mister Franco

MASSIMO

: Ma tutto era cominciato all’epoca della

strage di via Lazio (1969), quando Bernardo Provenzano
conquistò Palermo a suon di lupara. Si consumò
in un cantiere della “nuova Palermo”, icona della
speculazione edilizia, una strage senza precedenti.
Obiettivo dei corleonesi era Michele Cavataio, boss di
Palermo, sospettato di voler vendere agli investigatori
l’organigramma della mafia corleonese. Ma per uccidere
lui, il commando travestito da squadra di polizia
non esitò a uccidere anche altri tre suoi fedelissimi.
Fu un vero e proprio conflitto a fuoco, Cavataio sparò
con la sua Colt Cobra e uccise Calogero Bagarella.
L’avvenimento turbò parecchio i responsabili dell’ordine
pubblico che, come spesso è accaduto nella
nostra storia, cercarono di correre ai ripari con ogni
mezzo. Mio padre fu così convocato a Roma, per un
incontro ad altissimo livello con i ministri Restivo e
Ruffini, e motivato a cercare un contatto durevole
con il nuovo gruppo dei corleonesi.
È così che nasce il rapporto con i servizi. Un rapporto
che verrà ulteriormente rafforzato un anno dopo,
nel 1970, in occasione del tentato golpe di Junio
Valerio Borghese, che vedeva pesantemente coinvolta
l’organizzazione mafiosa, e Luciano Liggio in particolare.
Anche allora mio padre dovette riferire sulle strategie
progettate durante i preparativi del golpe che
ebbero come momento organizzativo un incontro a
Roma tra il comandante Borghese e il capo della cu-
pola regionale di Cosa nostra, che in quel momento
era Giuseppe Calderone.
Mi sono sempre chiesto se Franco fosse il suo vero
nome. Così lo avevo memorizzato sul cellulare su
indicazione di mio padre, anche se – devo dire –
qualche volta lo sentivo chiamare Carlo, specialmente
quando mi avvicinavo alla fine dei loro incontri.
Ecco perché io stesso non so quale dei due nomi sia
quello vero.
Ma li ricordo bene, i due amici. A Roma Franco veniva
a prenderlo spesso per la passeggiata quotidiana.
Arrivava con la sua auto blu, elegante, con i capelli
grigi ben pettinati, gli occhiali da vista, gli abiti impeccabili.
Parlavano e parlavano, mentre percorrevano
le stradine tra piazza di Spagna e piazza del Popolo.
Avevano anche qualche amico in comune, per
esempio il conte Romolo Vaselli. Ed è stato sempre
lui a manovrare, nel bene e nel male.
Non ha mai perso d’occhio mio padre, anche quando
finì in carcere. Ho riconosciuto, tra le foto mostratemi
dai magistrati, due tra i suoi collaboratori: quello
che gli faceva da autista e un altro che entrava e
usciva da Rebibbia per “governare” la detenzione di
mio padre. Lui non c’era tra le foto mostratemi. L’autista
aveva il volto del “capitano”, quello che mi avvicinò
mentre stavo agli arresti domiciliari per raccomandarmi
di non parlare di “argomenti scottanti” e, l’anno
scorso, venne a minacciarmi a Bologna, direttamente
a casa mia. L’ultima volta che ho visto Franco
era il 2006: mi invitò ad allontanarmi dall’Italia, perché
dovevano accadere alcuni eventi che in qualche
modo potevano coinvolgermi: con la mia famiglia e
l’avvocato di fiducia partimmo allora per Sharm el
Sheik. Dopo qualche giorno arrestarono Bernardo
Provenzano e tra i pizzini ne trovarono uno che mi riguardava.


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