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Addio a Stefano Poscia

Stefano Poscia. Nairobi, Buenos Aires, il corno d’Africa, l’Eritrea, Beirut, Tel Aviv. E ogni tanto un passaggio veloce qui a Roma. Con Stefano, che oggi ci ha lasciato, avevo lavorato a “Dialogo Nord Sud” nei primi anni ’80. La corrispondenza che segue, sul Sole 24 Ore di oggi, lo ricorda dopo gli anni del Mamiani a “Corrispondenze Internazionali” e poi in giro per il mondo. Però penso che fu a “Dialogo…” , all’inizio del decennio ’80, che lui cercò di dare il meglio di se stesso. All’epoca c’erano lì in  quella piccola impresa Paolo Argentini e Beniamino Natale in redazione, Susetta Bozzi e Lucio Mele all’impaginazione, pochi altri in quell’angusta sede di via Dardanelli. Per dire cosa? Cercare di avvicinare il terzo mondo al primo. Impresa nobile e peraltro irrisolta. Che val la pena di tenere presente nonostante i tempi piuttosto bui. Il funerale mercoledì alle 11, nella chiesa interna del cimitero di Primaporta. Così il Sole 24 Ore online di oggi ricorda il povero Stefano:

“È morto oggi a Roma a 57 anni, dopo una vita trascorsa in prima linea, Stefano Poscia, inviato di guerra dell’Ansa e corrispondente per anni da numerose sedi di frontiera.
Una crudele malattia, affrontata con consapevolezza e coraggio per un anno, lo ha portato via stamattina all’affetto della sua famiglia, ai suoi amici e ai colleghi.

Nato a Roma il 3 agosto 1953, aveva cominciato l’attività giornalistica dopo una stagione di impegno politico, da leader del Movimento studentesco al liceo Mamiani, negli anni caldi del dopo ’68. Un impegno che tuttavia non gli aveva lasciato la nostalgia della notorietà e dal quale, ancora giovane, si era gradualmente distaccato: dapprima per dirigere il trimestrale ‘Corrispondenze Internazionalì e quindi per dedicarsi alla passione che non lo avrebbe più abbandonato, quella di inviato giramondo.

Passato all’Ansa, fu corrispondente dal Corno d’Africa, coprendo da Nairobi i conflitti di una delle aree più insanguinate del continente nero. A cominciare da quello fra Etiopia ed Eritrea: paese – quest’ultimo – destinato a diventare quasi una seconda patria, oggetto di studi e approfondimenti fino agli ultimi mesi di vita, oltre che terra d’origine di sua moglie Gabriella.

Un capitolo (arricchito anche dal saggio “Eritrea, colonia tradita”, pubblicato dalle Edizioni Associate nel 1989) a cui sarebbero seguite le esperienze in Medio Oriente, in veste di capo dell’ufficio di corrispondenza di Tel Aviv prima e di Beirut poi. Sempre a ridosso della trincea, a raccontare guerre e ingiustizie di cui avrebbe voluto vedere la fine: nelle trincee africane in cui visse per settimane accanto ai guerriglieri di Isaias Afeworki, oggi presidente eritreo e allora capo della ribellione irredentista contro Addis Abeba; come nel Libano dell’estate 2006, teatro dei 34 giorni del più recente conflitto fra Israele e Hezbollah.

Negli ultimi tempi, prima della malattia, si era trasferito a Buenos Aires, in qualità di responsabile dell’Ansa per l’America Latina, portandosi dietro i ricordi, il carattere pungente, uno sguardo disincantato, ma mai indifferente alle cose del mondo. E quel portachiavi, fatto con una pallottola di kalashnikov finita un giorno nel salotto di casa sua a Beirut, che ogni tanto mostrava con un mezzo sorriso”.

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