Con Roma sunu Senegal, che in lingua Wolof vuole dire Roma il nostro Senegal, ho cercato di raccontare un frammento di storia dell’immigrazione dal Senegal che ha toccato la nostra città, una di quelle storie minori dove non succede nulla di eclatante, che non si conclude neanche con quello che generalmente si intende un lieto fine.
Perché raccontare, allora, una storia che non ha intrecci narrativi ricchi di colpi di scena e neanche un happy ending del quale gioire e commuoversi a seconda del caso?
Perché quello che ho cercato di narrare per immagini, non è né fiction che ha bisogno di suscitare emozioni forti, né cronaca che ha bisogno di accadimenti sensazionali che devono essere strillati con titoli a caratteri cubitali, è la storia di un processo di integrazione, dove le sofferenze, le gioie e le delusioni, si snodano nel fluire dell’arco temporale di circa tre – quattro anni, dal 2006 al 2009. Un lasso di tempo, che ha visto come attori da una parte i membri della comunità senegalese e dall’altra gli abitanti, le scuole, le associazioni di volontariato e le istituzioni territoriali del XVI Municipio di Roma che hanno avuto, in questa vicenda, un ruolo e una funzione decisiva.
Una storia minore, nella quale sono entrato prima come osservatore e poi come testimone, che spero, per come l’ho vissuta e per come l’ho raccontata, aiuti a capire una cosa: che è possibile mettere in atto processi di integrazione e di incontro fra popoli e culture diverse se si parte da un pre-giudizio, quello che vede nella diversità una fonte di scambio e di ricchezza.
Con questo pre-giudizio, diciamo meno provocatoriamente con questa convinzione e con ferma volontà, si sono approcciati all’incontro, come già anticipato, gli abitanti di Bravetta, di Monteverde, gli studenti di numerosi licei, molti docenti, i professori e le maestre delle scuole del XVI municipio e non da ultimi i padri comboniani della Consolata e della parrocchia di San Pancrazio. E con la stessa convinzione e con la stessa volontà quegli africani, islamici con retaggi animisti, abitanti del ghetto, hanno cercato il contatto ed il dialogo con le istituzioni territoriali del XVI Municipio, dimostrando un alto senso civico e delle istituzioni.
Nel Roma Residence, anzi nell’ultimo degli edifici, ancora non sottoposto a sventramento dalla proprietà, vivevano nel 2006 circa cento, centocinquanta Senegalesi, accanto ad un gruppo molto nutrito di Rom.
I senegalesi ci vivevano pagando un regolare affitto prima delle controversie con la proprietà che favorì direttamente o indirettamente l’occupazione degli stabili ed il loro conseguente degrado.
Il residence non era però definibile solo come una struttura fatiscente dove risiedeva un numero imprecisato di immigrati senegalesi. Era un luogo di incontro anche per chi abitava altrove e tornava a trovare gli amici e, durante il Ramadan, vi si recava a pregare. Era un luogo dove le donne preparavano ogni giorno pasti caldi per i loro “fratelli” lontani dalla famiglia. Era un luogo dove artisti già famosi tornavano dai “fratelli” musicisti per dare loro la possibilità di affrancarsi dalla condizione irregolare di ambulante, coinvolgendoli nei loro concerti, perché potessero tornare ad essere suonatori di cora, percussionisti, cantastorie e danzatori, per farli tornare a vivere ed a mantenere la loro famiglia in Africa col loro vero lavoro. Era un luogo dal quale i bambini ogni giorno si recavano a scuola.
Visto dall’esterno era un ghetto, all’interno le difficoltà non mancavano, il rapporto con i Rom non era facile e malgrado tutto questo il residence è stato un luogo nel quale, i senegalesi si sono sentiti comunità.
Ho scritto che queste foto raccontano di un arco temporale che va dal 2006 al 2009, perché, malgrado il Roma Residence esistesse da tempo, il 2006 fu l’anno del mio ritorno a Monteverde, dopo un lungo periodo di assenza, dove ho rincontrato i vecchi amici che mi hanno fatto conoscere Ousmane, Ciré e gli altri “fratelli”. L’anno di conclusione, il 2009, è stato quello in cui ho scattato le ultime foto, le inquadrature che cercavo come tessere mancanti del mosaico il cui impianto ritenevo complessivamente ed intimamente, di aver concluso il 6 luglio 2008 al termine di un grande concerto, organizzato da Fabbrica Europa, con il sostegno dell’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma e del Municipio Roma XVI, a villa Pamphilj. In quell’occasione su un enorme palco si sono esibiti, musicisti provenienti da mezzo continente africano, danzatrici del ventre italiane e senegalesi, musicisti indiani e italiani tutti intorno alla figura carismatica del Griot Badarà Seck e dall’altra parte del palco, ma sembrava che tutta villa Pamphili vibrasse all’unisono, una folla di cittadini romani che ballavano al ritmo delle percussioni. Quella sera pensai che si era conclusa una storia, quella di un cammino collettivo, ognuno aveva ricevuto dall’altro quello che gli era stato offerto, i senegalesi, già sfollati dal Residence avevano trovato, anche individualmente, la loro strada e i cittadini romani, non solo i “monteverdini” avevano ricevuto una esperienza di vita “spettacolare”.
Viste come sono andate le cose, la mia sensazione avuta quel 6 luglio si è rivelata giusta. La storia cominciata dal ghetto è proseguita e si è sviluppata nel rapporto con le scuole dove i corsi di percussione, i seminari e gli workshop sono prolificati, è proseguita nelle istituzioni dove esponenti della comunità senegalese sono entrati nella consulta per l’immigrazione e quando altri senegalesi sono diventati mediatori culturali e quando altri ancora hanno proseguito la loro attività di sarti, di pugili e di pittori, ma anche di badanti e di impiegati dell’AMA e molto anche perché sono sorte unioni e famiglie miste, perché sono nati nuovi bambini.
Non a tutti, purtroppo, sono state riservate sorti così “magnifiche e progressive”, molti di loro sono rimasti esclusi e penso a Badarà Tal e più ancora a Ibrahim che non era un soggetto debole, non un africano che si era trovato disorientato in quest’Italia piena di luci e di colori, con tanta gente che lavora e con tanta gente che produce, era un senegalese che aveva dato ripetizioni di francese a liceali del Montale, un senegalese tra i più attivi come rappresentante della sua comunità nei confronti del territorio e con le associazioni di volontariato. E’ stato un immigrato rimasto prigioniero del circolo vizioso, lavoro – permesso di soggiorno – permesso di soggiorno – lavoro, un immigrato che non accettava più di considerare un lavoro quello di vendere CD falsi.
Questo titolo Roma sunu Senegal, che ho voluto mantenere, fu formulato una sera, proprio insieme ad Ibrahim, mentre si stava pianificando come raccontare la vita del Residence, ora quelle parole hanno cambiato significato. Si è aggiunta, per alcuni, alla prima accezione originaria che vedeva Roma come una nuova patria dove cominciare e costruirsi una nuova vita, un altro significato, visto da un punto diametralmente opposto, quello di una patria che non ti ha accolto e dalla quale sei stato costretto ad andartene; andartene di nuovo. Roma è divenuta, per alcuni, come quel Senegal dal quale erano partiti per la prima volta ed ora di nuovo sono stati costretti a partire per un ritorno. Quel ritorno è stato una nuova emigrazione.
Roberto Cavallini
Le foto di Cavallini da oggi, venerdì, a Roma alla Casa della Memoria di via San Francesco di Sales