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Lietta

Lietta era una pisana, e questo per me è importante. Era stata cronista, e anche questo vale. E aveva un viso buono, terzo elemento chiave. Dunque era una cronista, di origini pisane, dal viso buono. Tanto da farne una persona decisamente piuttosto rara.

L’ho conosciuta nei giorni del rapimento Moro. Non era ancora passata, armi e bagagli, a fare il critico cinematografico. Questa è stata la sua seconda o terza vita, quella  più nota oggi. Ma Lietta Tornabuoni era innanzi tutto e prima di tutto, lo dico per gli amici critici cinetatografici (sei d’accordo, no, Carabba?), una giornalista a tutto campo. Intelligente e attenta.

Poi certo con la morte del critico Stefano Reggiani le avevano proposto il passaggio e questo aveva fatto negli ultimi quindici, vent’anni. Prima però c’erano stati gli anni di Moro e di tutte le altre grandi storie italiane.

Pisa, per cominciare. Naturalmente da ex pisani c’era da scherzarci su, poi però c’era il sopravvento dell’attualità. L’ho incontrata in quei frangenti difficili del sequestro Moro. Come altri era passata dal giornale Lotta continua, era il momento che sarebbe costato tanto a Sciascia, di “Né con lo Stato né con le Br”. Posizione complicata, certo, ma chi avrebbe voluto stare allora con uno Stato rappresentato da Andreotti e dai dorotei, da Pecchioli e dagli altri abbacinati dalla stretta della grande coalizione. Era venuta per capire cosa cercavamo di fare.

Cosa cercavamo di fare? Cercavamo di salvare la vita ad Aldo Moro. Tanto semplice. Mi pare che Lietta Tornabuoni, con quel suo bel viso dolce da italiana degli anni ’50, l’avesse capito.

Così come ora aveva capito, quasi un presagio, il bel film di Clint Eastwood. Uno che poco tempo ha detto in tutta semplicità (e tante rughe): “Mai stato reazionario e conservatore”. Com’è strana e controcorrente la vita. Se n’era accorta anche Lietta.

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