Noi deportati ci portiamo dietro i nostri drammi, le nostre depressioni…
giovedì, 27 Gennaio, 2011Sono uomini e donne piccoli, ma le storie che raccontano sono grandi. Enormi. Troppo più grandi di loro. Cose che non si potevano raccontare e così è stato a lungo. E’ Marcello Pezzetti, che li conosce uno ad uno, a interrogarli su questo: perché avete tardato a parlare così a lungo? E’ una domanda retorica, la risposta Pezzetti già la conosce, ma bisogna farla venire fuori. E’ la stessa risposta che pochi anni fa a pochi metri dalla Sinagoga, dove risuonano queste parole stasera, si è dato un superstite anni fa buttandosi giù dal ponte. Come Primo Levi. Come altri. Il peso insopportabile di ciò che è stato.
Serata a due marce, stasera, dentro il Tempio Maggiore. Con la prima parte occupata dalle autorità con una passerella che sembra una cosa scontata e inevitabile, purtroppo lunga, con gli annunci di Alemanno che ridà la licenza di tassista a un nipote di un deportato spoliato con le leggi razziali (Pacifico Di Consiglio), con la Polverini, con Zingaretti, con Gianni Letta strappato per qualche ora ai suoi tristi affanni berlusconiani.
E poi ecco la seconda parte, quella vera, quella per la quale il rabbino capo Riccardo Di Segni chiederà alla fine rispetto per gli anziani, dedicata a questi anziani sopravvissuti e ai loro silenzi, più che ai loro racconti. Uno per tutti, Sami Modiano, alla fine che dice: “Abbiamo dei grandi problemi, abbiamo depressioni…I miei occhi hanno visto cose orribili. Sono stato liberato che avevo 14 anni. Non ci credevo. Molti gli interrogativi, uno su tutti. Perché mi sono salvato proprio io? Tutti interrogativi che mi hanno tormentato per tutta la vita. E oggi una risposta ce l’ho. Sono questi ragazzi che mi hanno dato la forza di parlare, loro vedono ora quello che hanno visto i miei occhi…”. Ci sono anche i figli, come Eugenio del povero Lello Perugia scomparso il 24 novembre, il Cesare della Tregua di Primo Levi. Eugenio Dice: “Papà non parlava granché di queste cose. Mi restano le sue cicatrici, quel numero tatuato sul braccio, i suoi sguardi nel vuoto…”.
E prima ecco Giuseppe Di Porto, matricola 167988. Ecco Mario Limentani matricola 42230, ecco Giuseppe Varon che viveva a Rodi da cui fu strappato giovanissimo. “E lì gli ebrei, 2500, erano tutti ittaliani”, ricorda Pezzetti. A un’altra deportata Pezzetti poi chiede: “Quanti ne sono tornati?”. E lei: “Solo cento”. E ancora Alberto Mieli che racconta di quella notte che nel lager picchiò un rabbino che pregando aveva messo a repentaglio la vita di tutti loro. Una colpa che Mieli si trascina dietro e che la dice lunga sulla vita concentrazionaria dei campi di sterminio nazisti.
E’ la contabilità di questa storia come hanno ricordato Sabatino Finzi e Lello Di Segni. La contabilità anche di qualche gesto insperato in quel buio immenso, come ha spiegato Edith Bruck, per dire di qualche forma di pietà che ogni tanto scappava anche ai tedeschi. Come chiederle a un cento punto: “Come ti chiami?”. In quel monm ento aveva smesso di essere per un po’ solo un numero. La nipote di Rubino Salmoni, che ha appena pubblicato un bel libro “Ho sconfitto Hitler”, legge un breve scritto del deportato che non è presente. E infine Shlomo Venezia, che è appena tornato poche ora fa da Parigi dove era stato invitato dall’Unesco, che ricorda anche quei carristi greco americani che si è trovato di fronte il giorno della liberazione. Un incontro incredibile tra lui di Salonicco e questi giovani soldati venuti da oltre Atlantico. Uniti dalla lingua greca. “Ti kànis?”. “Come stai?”.
Il Tempio stasera era pieno di persone e per tre ore non è volata una mosca.
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