Informazioni che faticano a trovare spazio

Gli affari di Berlusconi e Gheddafi. Soci nella Quinta Communications. Poi su Nessma Tv B ha detto: “Gli ho baciato la mano, emozione profonda che tengo nel cuore…”

Ecco Berlusconi a Nessma Tv, la tv tunisina satellitare per tutto il Maghreb, proprietà di Berlusconi e Tarak Ben Ammar, dove si parla bene di Gheddafi. Nell’occasione B spiega come gli ha baciato le mani. Avevamo già segnalato questa intervista incredibile (la trovate ora qui sotto in pagina come video) nella quale B pensando forse di non essere visto anche in Italia si è permesso di dirne tante. Su clandestini e immigrati, ragazze da tv, Gheddafi ecc.  Quando fu fatta fece soprattutto rumore perché alla fine B chiedeva il numero di telefono all’intervistatrice. Ma quello era il meno…

Berlusconi e Gheddafi sono soci in affari. Dal giugno 2009 la Lafitrade della famiglia Gheddafi e la Fininvest tramite la controllata lussemburghese Trefinance sono i veri proprietari della Quinta Communications di Tarak Ben Ammar, il socio tunisino di Berlusconi che è a sua volta anche nel consiglio di amministrazione di Mediobanca e Telecom. L’affare con la società tunisina, in cui Lafitrade (olandese controllata da Lafico dei Gheddafi) ha il 10% e Fininvest il 22%, ha aperto la strada al riciclo occidentale, a partire dall’Italia, di una massa voluminosissima di petrodollari di Gheddafi, valutata 65 miliardi di euro.

Dal maggio 2008 la Quinta di Berlusconi e Ben Hammar avevano poi acquisito Nessma Tv, la tv satellitare che si vede in Tunisia, Libia, Egitto e Maroccio. Molto forte in Tunisia è molto vista anche in Libia. Nessmna è controllata, a quanto pare, da una Quinta Communications che non è la stessa in cui c’è anche il capitale di Gheddafi. E’, come spesso capita in queste scatole cinesi, una società consorella. Ma la sostanza qual è? Nessma è di Ben Ammar e Berlusconi. I quali poi in una socioetà adiacente sono soci con Gheddafi. Giudicate voi le conseguenze.

Ecco perché Berlusconi sta zitto e si macchia le mani di sangue, così come fa il suo socio dittatore. Ecco perché Bossi iedri ha detto che Gheddafi si è lasciato prendere la mano, spaventato da quelle masse in piazza. Ecco perché Frattini ha fatto di tutto per evitare sanzioni dell’Ue verso la Libia (Frattini su Nessma tv, in you tuvbe, parla anche di Craxi…)..

Ripropongo qui di seguito un articolo di Repubblica sugli affari Berlusconi-Gheddafi. Risale all’anno scorso, in questi mesi la situazione sarà anche ulteriormente  peggiorata.

Poi ripropongo anche l’intervista di Nessma  Tv per la parte in cui B tesse gli elogi di Gheddafi.

L’articolo di Ettore Livini su Repubblica in agosto 2010:

NON SOLO tende beduine, caroselli di cavalli berberi e sfilate di soldatesse-amazzoni. La Berlusconi-Gheddafi Spa, a due anni dalla fondazione, è uscita da tempo dal folklore. L’oggetto sociale d’esordio  –  la chiusura delle ferite del colonialismo  –  è stato rapidamente archiviato all’atto della firma del Trattato d’amicizia bilaterale nel 2008.
L’Italia ha garantito 5 miliardi in 20 anni alla Libia e Tripoli ha bloccato (a modo suo) il flusso di immigrati verso la Sicilia. Poi – snobbando i dubbi degli 007 Usa e dei “parrucconi” come Freedom House che considerano il Paese africano una delle dieci peggiori dittature al mondo – sono cominciati i veri affari. Un pirotecnico giro d’operazioni gestite in prima persona dai due leader e da un piccolo esercito di fedelissimi (“gli imprenditori sono i soldati della nostra epoca”, dice il Colonnello) che ha già mosso in 24 mesi quasi 40 miliardi di euro e che rischia di cambiare – non è difficile immaginare in che direzione – gli equilibri della finanza e dell’industria di casa nostra.

La premiata ditta Gheddasconi ha una caratteristica tutta sua. Gli affari diretti tra i due sono pochissimi. Anzi, solo uno: Fininvest e Lafitrade, uno dei bracci finanziari di Gheddafi, hanno entrambe una quota in Quinta Communications, la società di produzione cinematografica di Tarak Ben Ammar, l’imprenditore franco-tunisino tra i principali fautori dell’asse Arcore-Tripoli. Il grosso del business si fa per altre strade. Il Colonnello ha messo sul piatto unpo’ del suo tesoretto personale (i 65 miliardi di liquidità di petrodollari accumulati negli ultimi anni). Il Cavaliere gli ha spalancato le porte dell’Italia Spa, sdoganando la Libia sui mercati internazionali ma pilotandone gli investimenti ad uso e consumo dei propri interessi, politici e imprenditoriali, nel Belpaese.
In due anni Gheddafi è diventato il primo azionista della prima banca italiana (Unicredit) con una quota vicina al 7% (valore quasi 2,5 miliardi) e grazie allo storico 7,5% che controlla nella Juventus è il quinto singolo investitore per dimensioni a Piazza Affari. Le finanziarie di Tripoli hanno studiato il dossier Telecom, puntano a Terna, Finmeccanica, Impregilo e Generali. Palazzo Grazioli, nell’ambito del do ut des di questa realpolitik mediterranea, ha dato l’ok all’ingresso di Tripoli con l’1% nell’Eni (“puntiamo al 5-10%”, ha precisato l’ambasciatore Hafed Gaddur). E la Libia ha allungato di 25 anni le concessioni del cane a sei zampe in cambio di 28 miliardi di investimenti.

Il Cavaliere tira le fila, consiglia e gongola. L’ingresso del Colonnello in Unicredit – oltre che a innescare i mal di pancia leghisti – è il cavallo di Troia per conquistare i vecchi “salotti buoni” tricolori, la stanza dei bottoni che controlla Telecom, Rcs – vale a dire il Corriere della Sera – e le Generali. Il momento per l’affondo è propizio. Il Biscione ha già piazzato le sue pedine negli snodi chiave: Fininvest e Mediolanum hanno il 5,5% di Mediobanca, crocevia di tutta la galassia. Tra i soci di Piazzetta Cuccia – con un pool di azionisti francesi accreditati del 10-15% – c’è il fido Ben Ammar. E gli ultimi due tasselli sono andati a posto in questi mesi. Lo sbarco di Tripoli a Piazza Cordusio, primo azionista di Mediobanca, stringe la tenaglia dall’alto. E a chiuderla dal basso ci pensa Cesare Geronzi, presidente delle Generali i cui ottimi rapporti con il Colonnello (e con il premier) – se mai ce ne fosse stato bisogno – sono stati confermati dalla difesa d’ufficio di entrambi al Meeting di Rimini. Niente di nuovo sotto il sole: l’assicuratore di Marino ha sdoganato Tripoli anni fa accogliendola nel patto di Banca di Roma (poi Capitalia) assieme a Fininvest. E ancor prima ha imbarcato la Libia in banca Ubae, guidata allora da Mario Barone, uomo vicino a quel Giulio Andreotti che solo un mese con il suo mensile 30 giorni ha pubblicato un volume sui discorsi pronunciati da Gheddafi nella sua ultima visita italiana.
Il puzzle adesso è quasi completo. Il Cavaliere ha in mano il controllo di industria e finanza pubbliche. E ora, grazie all’asse con Ben Ammar e Geronzi e ai soldi di Gheddafi (sommati alla debolezza delle vecchie dinastie imprenditoriali tricolori), può blindare quella privata estendendo la sua influenza su tlc, editoria e – Bossi permettendo – sulle ricchissime casseforti delle banche e delle Generali.

L’asse con il Colonnello gli regala però un’altra opportunità d’oro: quella di distribuire le carte delle commesse a Tripoli garantite dall’attivismo dell’efficientissimo tandem, immortalato ora a imperitura memoria sul frontespizio dei passaporti libici. Ansaldo Sts (per il segnalamento ferroviario) e Finmeccanica (elicotteri) hanno incassato due maxi-ordini. I big delle costruzioni si sono messi in fila per gli appalti sulla nuova autostrada libica da 1.700 chilometri (valore 2,3 miliardi) affidata in base agli accordi bilaterali ad aziende tricolori. In questi mesi hanno attraversato il Mediterraneo pure l’Istituto europeo di oncologia e Italcementi mentre Impregilo ha consolidato con una commessa da 260 milioni la sua già solida posizione nel Paese nordafricano dove con 150 miliardi di investimenti infrastrutturali nei prossimi sei anni la torta – previo via libera della Gheddasconi Spa – è abbastanza grande per tutti.
Anche Gheddafi, come ovvio, ha il suo dividendo. L’Italia è il cavallo di Troia per portare la Libia fuori dall’isolamento nell’era in cui la liquidità, come dimostra il salvataggio delle banche Usa da parte dei fondi sovrani arabi, non ha più bandiere. Missione compiuta se è vero che persino a Londra – grazie a un’operazione di diplomazia sotterranea guardata con sospetto a Washington – l’abbinata politica-affari ha dato risultati insperati: la Gran Bretagna ha liberato un anno fa Abdelbaset Al Megrahi, l’ex 007 libico condannato per l’attentato di Lockerbie e il Colonnello ha dato subito l’ok alle trivellazioni Bp nel golfo della Sirte. Nessuno poi ha battuto ciglio nella City quando Tripoli ha rilevato il 3% della Pearson (editore del Financial Times) e fondato lungo il Tamigi un hedge fund. O quando il numero uno della London School of Economics è entrato tra gli advisor della Libian Investment Authority a fianco del banchiere Nat Rothschild e a Marco Tronchetti Provera.

Pecunia non olet. E anche l'(ex) dittatore Gheddafi non è più un appestato per le cancellerie internazionali. Il premier greco Georgios Papandreou è sbarcato qui per cercare aiuti. La Russia di Putin – altro alleato di ferro dell’asse Gheddafi-Berlusconi – si è aggiudicata fior di commesse a Tripoli come le aziende turche di Erdogan, altra new entry in questo magmatico melting pot geopolitico tenuto insieme, più che dagli ideali e dalla storia, dal collante solidissimo del denaro.

(28 agosto 2010)

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