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Rostagno, nell’udienza di ieri il Pm rivela che c’è un memoriale di Rostagno sul delitto Calabresi. Diceva: Lotta Continua non c’entra, il delitto non fa parte della mia cultura

Il delitto Rostagno e quel fucile scoppiato

di Rino Giacalone

La disputa processuale è in massima parte raccolta tutta in un “pezzo” di legno che è finito chissà dove conservato negli archivi dei reperti della Procura di Trapani o presso quella antimafia di Palermo. E’ una parte del legno che copriva il fucile dal quale la sera del 26 settembre 1988 furono esplosi alcuni dei colpi mortali che uccisero Mauro Rostagno, il sociologo aniomatore della Comunità Saman, ma a noi piace ricordarlo come giornalista, a Rtc, anche perchè per questa ragione la mafia lo fece uccidere. Un fucile che esplode nelle mani di un killer per i carabinieri era sinonimo di impreparazione e un sicario di mafia impreparato non può esistere. Un fucile può esplodere anche tra le mani di un sicario mafioso, sostiene la Polizia, e il questore Rino Germanà, all’epoca del delitto capo della Squadra Mobile di Trapani, il primo e l’unico fino al 2009 a sostenere la “pista mafiosa” (nel 2009 le indagini furono riaperte dall’intuizione inestigativa di un altro dirigente della Mobile, Giuseppe Linares), sentito dalla Corte di Assise ha spiegato che un fucile può esplodere perchè “sovraccaricato”. L’affermazione di Germanà chiude il cerchio attorno ad uno degli imputati del delitto di Mauro Rostagno, il già riconosciuto uomo d’onore di Valderice e killer di mafia, Vito Mazzara, il capione di tiro al volo che più che partecipare a gare sportive avrebbe preso parte a gare di morte ordinate da Cosa nostra. Il pentito Francesco Milazzo che ha dato una mano alla riapertura dell’inchiesta sul delitto di Mauro Rostagno, ha raccontato che abitudine di Mazzara era quella di far da se le cartucce da usare per i delitti che gli venivano ordinati, aveva tutto l’armamentario, e le cartucce le sovraccaricava. Poi faceva in modo di renderle irriconoscibili, facendo scorrere a vuoto il carrello dell’arma in modo da lasciare più striature sulle cartucce, una abitudine che ripetuta ha finito con il fare diventare quelle tracce la “firma” di Cosa nostra, e sua, su una serie di omicidi, per alcuni dei quali è stato condannato, come l’uccisione dell’agente di custodia Giuseppe Montalto, ammazzato davanti la moglie e la figlioletta di pochi mesi la sera dell’antivigilia di Natale del 1995. Il killer sparò e non sbagliò bersaglio. Non colpì altri se non il solo povero Montalto. La stessa cosa è accaduto per Rostagno, i killer risparmiarono Monica Serra che viaggiava sulla Duna guidata da Rostagno e che per semrpe fermò la sua corsa nello slargo di Lenzi che porta verso la comunità Saman. E come non ricordare le guerre di mafia di Marsala ed Alcamo, le vittime venivano uccise in mezzo alla gente, i colpi erano precisi, veniva ucciso chi doveva essere ammazzato. Come accaduto tanti anni addietro per Piersanti Mattarella, in auto con i suoi familiari freddato il giorno dell’Epifania del 1980, o ancora per il capitano Basile, ucciso mentre teneva la figlia in braccio, rimasta incolume. La mafia uccide quando decide che deve uccidere, in qualsiasi circostanza di tempo e di luogo. Il fucile può anche scoppiare, “non è un fatto strano” ha detto il pentito Sinacori che ha ribadito che quel delitto era stato deciso da Cosa nostra: “Quando si seppe che avevano ammazzato Rostagno nessuno dentro le famiglie di Cosa nostra si pose domande, nessuno chiese chi era stato, si sapeva che era stata la mafia e non c’era bisogno di fare domande”.

Certo restano alcune circostanze anomale nel delitto Rostagno, che non escludono comunque la decisione di morte firmata dalla mafia. E cioè quella che Monica Serra sentita nell’inmmediatezza del delitto dai carabinieri non aveva addosso una sola goccia di sangue, lei che era stata vicino a Rostagno mentre lo uccidevano. E poi il fatto che dopo l’interrogatorio la si vide andare in giro, in auto, sulla lussuosa Bentley del guru Francesco Cardella, in piena notte. Si dirà che era sotto choc e doveva distrarsi. sarà, ma intanto c’è anche l’altra circostanza che Cardella quel 26 settembre del 1988 rientrò da Milano a Palermo come se avesse saputo che qualcosa di grave stava succedendo, e per una volta, forse la prima, quando era partito aveva lasciato la sua auto non in comunità, come era abituato a fare, ma al parcheggio dell’aeroporto di Punta Raisi. Se la Bentley fosse stata in comunità mai l’avrebbe potuta fare uscire perchè la stradina era occupata dalla Duna di Rostagno, ferma a centro di strada, crivellata dei colpi esplosi per uccidere il giornalista. Circostanze che nel prosieguo del processo verranno certamente affrontate e approfondite.

L’udienza del 16 febbraio è stata importante per tanti versi. a parte qualche colpo di scena, di cui si dirà, ha permesso a tanti di reincontrare Rino Germanà, l’ex capo della Mobile sfuggito nel 1992 ad un agguato di mafia a Mazara. Il «piglio» dell’investigatore che è certo del fatto suo lo continua a distinguere anche oggi che, sfuggito ad un agguato di mafia nel 1992, riuscì a farla franca ad un commando del quale facevano parte i boss più violenti della mafia siciliana, Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella, ha lasciato il terreno delle indagini e fa il questore a Forlì e dal primo marzo sarà questore a Pesaro. La mafia lo voleva morto in quella stagione stragista del 1992, i sicari gli tesero un agguato a Mazara, sul lungomare Tonnarella: era successo che quasi facendogli compiere un percorso a ritroso si era ritrovato, per scelta del ministero dell’Interno, a dirigere il commissariato di Mazara, paradossalemente dopo essere stato a Trapani, nella stessa provincia, a capo dell’apparato investigativo provinciale più importante, la Squadra Mobile. Dopo essere uscito indenne dall’attentato, però per decenni lo Stato lo mise quasi da parte, si privò di un investigatore eccellente, nella storia della Polizia non è l’unico ad avere subito questa sorte, prima l’esposizione, poi una specie di «isolamento» dorato, perchè, gli spiegarono, allontanto così dai pericoli: «Sono stato dirigente anche dell’ufficio di polizia all’aeroporto di Bologna» ha ricordato facendo la storia della sua carriera alla Corte di Assise che lo ha sentito ieri nell’ambito del processo per il delitto di Mauro Rostagno.

Germanà nel 1988 era capo della Mobile, e pensò subito che ad uccidere Rostagno era stata la mafia. Ci sono voluti 22 anni per portare a dibattimento la sua pista investigativa: «Non lo pensavo solo io che poteva essere stata la mafia, ma tutti quelli che lavoravano con me, le modalità di esecuzione del delitto ci hanno fatto subito sospettare del delitto mafioso».

Per anni le è stato “vietato” mettere piede in Sicilia, ogni tanto ci ritorna, cosa prova?

«È una cosa bella, io sono siciliano ed ho tanti ricordi, è poi commovente incontrare persone che magri non vedi da anni, vede nel nostro mestiere si vive tanto di sentimenti, di passioni, queste sono cose che emozionano, certo ci segnano anche perchè ci rendiamo conto reincontrandoci che il tempo passa».

Lei è sfuggito ad un agguato dei mafiosi più pericolosi, la cosa che non riuscì a Rostagno.

«Io sono stato fortunato, penso che la vita di ognuno è segnata dal destino,  scoprire che chi voleva uccidermi e chi ha ucciso Rostagno è stata la criminalità organizzata e mafiosa, dovrebbe portare tutti a ribadire e confermare la volontà perché la criminalità organizzata debba essere sconfitta definitivamente, perché non rappresenta un progresso civile e sociale. Tutti ci dobbiamo impegnare su questo fronte, ognuno con la propria responsabilità, specialmente a livello culturale».

A seguire questo processo ci sono alcuni studenti, che ne pensa?

«È una cosa positiva, la forza per battere la mafia deve essere culturale, questi processi servono a far comprendere ai giovani dove sta il bene e dove sta il male, questi giovani domani saranno anche amministratori, è bene che sappiano in che modo la mafia può presentarsi a loro, se avranno precisa questa percezione, la mafia non avrà vita facile».

Lei iniziò a indagare sulle connessioni tra mafia, politica e impresa, altri hanno reso concreto il suo lavoro e sono andati avanti, ma si è mai spiegato perchè esistono questi intrecci, solo gestione di potere?

“È una questione di uomini, se uno è delinquente riconosce in qualsiasi ambiente il suo omologo che vuole vivere comodamente non rispettando le regole».

Mercoledì alla seconda udienza del processo ha fatto la sua comparsa in aula Chicca Roveri, la compagna di Mauro. Non vuole parlare, o meglio lei vorrebbe parlare ma il suo difensore, l’avv. Carmelo Miceli le ha consigliato di non concedere interviste fino a quando non sarà lei a deporre nel processo. Non nasconde però il sorriso, lo concede parlando con alcuni, seria invece ha guardato in volto Vito Mazzara, presente in aula dietro le sbarre della cella, per caso si è ritrovata a sedersi a pochi metri da quella cella, non svela i pensieri che l’hanno attraversata. Mazzara ha colpito per la impassibilità mostrata durante tutta l’udienza ha chiesto e ottenuto dalla Corte di non essere né ripreso né fotografato, si presenta anziano, da anni è in carcere, ma lo sguardo è quello fiero, fiero di un assassino quale lui è stato riconosciuto essere da diverse sentenze di condanna all’ergastolo.

Chicca Roveri però non ha potuto seguire l’udienza, pur essendo costituita come parte civile, essendo indicata anche come teste, non potrà entrare nell’aula del dibattimento prima di essere chiamata rendere testimonianza. Stessa regola vale per tutti gli altri nelle stesse condizioni, come il vice presidente di Saman, Gianni Di Malta, anche lui ieri in a Palazzo di Giustizia.

L’udienza di mercoledì è stata dedicata a scandagliare i primi momenti investigativi successivi al delitto. Primo teste è stato il medico legale Nunzia Albano, eseguì l’autopsia con il dott. Fallucca, deceduto da qualche tempo, ha confermato che Rostagno fu attinto da una rosa di proiettili esplosi da un fucile e da colpi di arma da fuoco sparati da una pistola, al capo quanto al torace, colpi precisi, per uccidere, non doveva uscire vivo da quell’agguato Rostagno.

I «sussulti» il processo li ha cominciati a vivere subito dopo. Dapprima con il sostituto commissario di Polizia, Antonino Cicero, a seguire il questore Rino Germanà, e poi il luogotenente Bartolomeo Santomauro, il maresciallo Soggiu, e il colonnello Elio Dell’Anna. È venuto fuori il confronto tra le due «piste» seguite, da una parte la Polizia diretta da Germanà che privilegiò subito la matrice mafiosa, cosa ripresa e portata d’attualità nel 2009 con le indagini riaperte sotto la direzione dell’«erede» più importante di Germanà, il dirigente Giuseppe Linares, dall’altra parte i carabinieri che pensarono che il delitto poteva avere avuto altra matrice.

Non sono mancati nel giro di queste testimonianze i «colpi» di scena. Cicero ha riferito del ritrovamento di un fucile che sembrava danneggiato (a proposito di quei pezzi di legno di fucile trovati sul luogo del delitto) nelle acque di Nubia, e questo avvenne nell’ottobre del 1988, «ma era troppo corroso per pensare che fosse in acqua da un mese». Poi ha aperto, ma non del tutto, ma perché non aveva tanto da potere dire, una porta su quello scenario che resta sullo sfondo del processo, e cioè l’ipotesi che Mauro Rostagno possa essere stato ucciso per essere entrato a conoscenza di «segreti» importanti, un traffico di armi gestito da mafia e pezzi dello Stato. Cicero per conto suo e nell’ambito di altra attività venne a conoscenza che in effetti strani traffici interessavano la provincia, droga e armi che avrebbero viaggiato insieme. Preferì relazionare direttamente il ministero dell’Interno su queste notizie, volò a Roma a parlare con un dirigente di Polizia ma in aula ha detto di non ricordare con chi parlò, né fece relazione di servizio sulla circostanza. Notizia «pesante» perché il sospetto era quello che per questi traffici venivano usate base militari. Lui alla Corte ha detto di avere raccolto questa segnalazione, non ricca di tanti riferimenti, di averla «notificata» ai superiori, ma poi di non averne saputo più nulla.

Poi è toccato a Germanà. «Rostagno ucciso dalla mafia lo ritenemmo per le modalità seguite dal commando per ucciderlo, non erano sprovveduti e doveva essere un gruppo ben organizzato, che aveva usato una macchina rubata mesi prima e che fu fatta ritrovare bruciata 48 ore dopo il delitto in un cava dove sia noi che i carabinieri eravamo stati per ispezionarla. Queste non sono cose che fanno sprovveduti, ma gruppi organizzati, quella di Rostagno fu una esecuzione per un fatto grave, non per una vendetta».

L’ex dirigente della Mobile ha fatto ampio riferimento al suo rapporto del dicembre 1988, all’attività giornalistica di Rostagno che per le sollecitazioni che dava alla società poteva avere dato tanto fastidio, «spesso si scagliava contro la organizzazione mafiosa o contro gli episodi di malcostume e malagestione politica». Tra i servizi citati da Germanà quelli sulla presenza nel territorio di imprenditori catanesi, i Rendo, Graci, e Costanzo, «che avevano contatti forti con la mafia trapanese». Ha «resistito» alle domande delle difese, avvocati Vito e Salvatore Galluffo per Vito Mazzara, Giuseppe Ingrassia e Stefano Vezzadini, per Vincenzo Virga. Le domande degli avvocati Galluffo hanno cercato di portare Germanà su altre piste, hanno insistito come considerava possibile che la mafia potesse organizzare un agguato in una zona dalla quale era difficile fuggire via (la stretta stradina di Lenzi, a pochi metri dalla Saman), ma Germanà ha risposto che se la «mafia decide di uccidere qualcuno lo fa in qualsiasi circostanza di tempo e di luogo. Ed ha ripetuto: «Il gruppo di fuoco che uccise Rostagno era qualificato e organizzato».

Sulle indagini che in massima parte in questi 22 anni sono state condotte dai carabinieri e sul fatto che vennero seguite tante piste, scartando quasi quella mafiosa, ha riferito il maresciallo dei carabinieri Bartolomeo Santomauro: «Era nostro dovere, e ritengo che l’abbiamo fatto, vagliare tutte le ipotesi, anche per la poliedrica figura della vittima. Ma lo scoppio del fucile mi ha portato ad escludere l’ipotesi mafiosa». L’ex comandante del nucleo operativo dell’Arma, Elio Dell’Anna, che nel 1995 fece indagini nell’ambito della cosiddetta «pista interna», ha riferito sui controlli a carico di Giuseppe Cammisa, il famoso Jupiter, braccio destro di Cardella e inizialmente sospettato del delitto Rostagno. In quegli accertamenti la possibilità che il delitto poteva essere maturato in un ambito cosiddetto interno alla comunità (pista poi completamente archiviata) l’ufficiale ha però inserito elementi che non escludono la mafia. Ha detto infatti che «Cammisa aveva diversi precedenti, era legato a mafiosi di Campobello, come l’avv. Antonio Messina, era stato arrestato per favoreggiamento nell’ambito di un delitto». Testimonianze veloci queste dei carabinieri, nella prossima udienza, quella del 9 marzo saranno sentiti invece quelli che indagarono sul delitto sin dal primo momento. Quelli che dovrebbero dire come mai brogliacci e intercettazioni fatte nell’ambito del delitto sono spariti, sono rimaste alcune intercettazioni che gettano fango e ombre, che riferiscono di litigi dentro la comunità, che è provato nulla c’entrano e potevano entrarci col delitto.

La fine dell’udienza ha visto il pm Gaetano Paci produrre documenti trovati nell’appartamento di Rostagno: è saltato fuori una sorta di «memoriale» sul delitto Calabresi, indagine che vide Rostagno indagato, ma i magistrati di Milano non fecero a tempo a sentirlo perché fu ucciso. Lui voleva parlare e quello che voleva dire lo aveva scritto: escludeva che Lotta Continua, il movimento di cui aveva fatto parte, mai avrebbe potuto compiere delitti. Le difese vorrebbero portare il delitto forse verso questo versante, ma il pm li ha anticipati, «pista sondata, niente riscontri». In quel memoriale Rostagno un cosa l’ha scritta a chiare lettere: “il delitto non fa parte della mia concezione di vita”.  Regola che purtroppo non vale per tutti.

Ultima notazione. In aula a seguire il processo c’era un folto gruppo di studenti del Liceo Scientifico Fardella di Trapani. Partecipano ad un progetto di educazione alla legalità condotto dalla commissione comunale Pari Opportunità. Con loro si è fermata a parlare l’avv. Enza Rando che assiste l’associazione Libera nel processo, si è costituita parte civile, ma molti degli studenti sono rimasti spaesati, probabilmente vanno meglio preparatri prima e dopo l’udienza per renderli ancora più partecipi. La scelta ad essere presenti comunque è stata apprezzata dal presidente della Corte, il giudice Angelo Pellino, che a proposito di “processo” ha ricordato agli studenti come siano fuori luogo le polemiche di questi giorni, a proposito di chi parla di processi giusti ed equi: “La parola processo – ha detto Pellino ­- già da sé contiene i concetti di equità e giustizia”. A buon intenditore poche parole.

La Corte . Foto di Claudio Bova

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