Informazioni che faticano a trovare spazio

Da “Narcomafie”: Labirinto Rostagno

Labirinto Rostagno

Dopo ventidue anni di misteri e depistaggi è iniziato il processo per l’omicidio di Mauro Rostagno. Accanto all’evidenza della pista mafiosa emergono trame sottili che, passando dalla politica, arrivano fino alla Somalia che ha visto morire la giornalista Ilaria Alpi e il suo operatore Miran Hrovatin

di Davide Pecorelli

Da Narcomafie del 12.3.2011


Dalle televisioni a tubo catodico

posizionate nell’aula del tribunale

si vede un uomo camminare nervosamente.

Una guardia carceraria

è seduta dietro la scrivania. Si

rivolge alla Corte per annunciare

la presenza in sala di Vincenzo

Virga. L’uomo, classe 1936, che

fino a pochi istanti prima passeggiava

nervosamente, si avvicina

al microfono confermando

le proprie generalità. Virga è in

collegamento dal carcere di Parma,

dove è detenuto dal 2001 –

anno dell’arresto dopo un lungo

periodo di latitanza – al 41 bis,

per reati di mafia.

Nell’aula Falcone del Palazzo di

giustizia di Trapani, Maddalena

Rostagno ha il volto teso e gli

occhi sgranati. Non si siede quasi

mai. Ha lo schermo proprio sopra

la sua testa, a meno di due metri.

Eppure non lo fissa. L’anziano in

collegamento da Parma è accusato

di essere il mandante dell’omicidio

di Mauro Rostagno, suo padre.

Sono passati più di ventidue anni

dall’agguato che le portò via il

papà, a soli 15 anni. Il 2 febbraio

2011 è iniziato un processo che

cercherà di stabilire la verità su

quanto accaduto il 26 settembre

del 1988 in una strada buia di

Valderice, a Trapani. Maddalena

ascolta ogni parola del dibattimento

e concede all’uomo in

collegamento da Parma un solo

sentimento: l’indifferenza.

Una scelta di civiltà. I pubblici

ministeri Antonio Ingroia e Gaetano

Paci riaprono, dopo anni di

fragorose cantonate investigative,

l’inchiesta sul delitto. Il loro impianto

accusatorio si basa sulla

tesi che il giornalismo di inchiesta

esercitato da Rostagno attraverso

l’emittente locale Rtc non poteva

essere tollerato dalla mafia, che

si è liberata di lui tramite il più

tipico rituale di Cosa nostra: il

ricorso al piombo.

E a scardinare le logiche del sistema

di dominio malavitoso a

Trapani si aggiunge finalmente

anche la reazione della società

civile. Il cambiamento rincorso

per tutta la vita da Mauro si manifesta

a 22 anni dalla sua scomparsa.

Lo testimoniano le firme

raccolte dall’associazione “Ciao

Mauro” per riaprire il processo; la

memoria ora condivisa tra la gente

comune dell’uomo battagliero,

schietto, intransigente con i potenti;

e anche il corteo silenzioso

che il 2 febbraio 2011 è partito

dalla prefettura per giungere al

Palazzo di giustizia. Un gesto di

vicinanza verso i parenti, una

dimostrazione di riconoscenza

per quanto fatto dall’uomo venuto

dal nord che scelse la città

siciliana come casa. Ad aprire il

corteo un manifesto con la foto

di Mauro e una sua frase scritta

a caratteri cubitali: «Io sono

più trapanese di voi perché

ho scelto di esserlo».

Ventidue tra enti e associazioni

hanno deciso di presentarsi

alla prima udienza del processo

per costituirsi parte civile. Dalla

Regione Sicilia a Libera, dalla

città di Trapani all’associazione

“Ciao Mauro”. Tutti accomunati

da un solo obiettivo: contribuire

al raggiungimento della

verità. Delle ventidue richieste

di costituzione di parte civile,

quindici sono state accettate

dalla Corte. Con l’assassinio di

Mauro Rostagno la perdita è da

ritenersi collettiva.

Molte inchieste, un colpevole

annunciato. Per anni si è sentito

parlare del “mistero dell’omicidio

di Mauro Rostagno”. E se ad

oggi l’enigma non è stato ancora

risolto, si può però dire che un

passo importante verso la sua

conclusione è stato fatto. Vito

Mazzara e Vincenzo Virga sono

accusati di essere i responsabili

dell’omicidio. A prescindere dalla

sorte processuale dei singoli

imputati, tutti gli indizi convergono

su Cosa nostra.

Lo ha ripetuto, dopo oltre vent’anni

dalla conclusione delle indagini,

Rino Germanà, all’epoca al

comando della Squadra mobile di

Trapani, chiamato a testimoniare

il 16 febbraio. Non ha dubbi,

nemmeno dopo tanto tempo. Tutti

gli elementi raccolti nei mesi

successivi all’agguato facevano

pensare alla matrice mafiosa. L’assassinio,

un’esecuzione in piena

regola, è stato portato a termine

con due armi da fuoco: un fucile

e una pistola. Una firma chiara:

quella di Cosa nostra. Con tutta

probabilità, l’eliminazione del

giornalista non può essere stata

eseguita da un solo uomo. Vito

Mazzara – oggi imputato come

esecutore materiale del delitto –

la sera del 26 settembre del 1988

non poteva essere solo.

È nell’attività giornalistica di

Mauro Rostagno che si deve ricercare

il movente e Rino Germanà,

in udienza, lo ha ripetuto. I servizi

realizzati dall’emittente locale

Rtc andavano a toccare temi scottanti:

casi di malapolitica come

gli intrecci poco cristallini della

famiglia Manuguerra, mafififia e traffici

di droga a Trapani, i rapporti

tra le famiglie trapanesi e quelle

catanesi, i servizi sul processo per

l’omicidio di Vito Lipari, sindaco

di Castelvetrano. E inchieste su

logge massoniche e poteri occulti.

Poi l’auto utilizzata quella sera:

una Fiat Uno blu rubata ben sei

mesi prima a Palermo, tenuta

nascosta fino al giorno del delitto.

Chiaro segnale della premeditazione

dell’atto criminale. Tutti

questi elementi hanno portato

Germanà a scrivere, in una nota

inviata nel dicembre del 1988,

che la pista da seguire portava

direttamente ai vertici di Cosa

nostra. Rapporto che per anni

è stato coperto dalla polvere

in qualche ufficio giudiziario.

È merito della Dda di Palermo

se oggi si sta celebrando questo

procedimento e se le carte delle

prime indagini non sono andate

al macero.

Un delitto deciso dai vertici.

A pronunciare la sentenza di

condanna a morte sarebbe stato

Francesco Messina Denaro, padre

del super latitante Matteo,

nell’estate del 1988: «È giunto il

momento di far fuori quello con la

barba». A riferirlo ai pm, nel 1997,

è il collaboratore di giustizia Vincenzo

Sinacori, uomo di punta

della cosca trapanese, secondo cui

l’omicidio ebbe la benedizione di

Totò Riina, poiché nulla in quel

periodo, spiega il pentito, poteva

accadere senza l’approvazione

del capo supremo della mafia

siciliana. A Vincenzo Virga, capo

del mandamento trapanese, il

compito di mettere in pratica le

direttive. E per farlo, secondo

Sinacori e la Dda di Palermo, fu

scelto uno dei migliori tiratori di

Cosa nostra: Vito Mazzara, attualmente

imputato poiché ritenuto

l’esecutore materiale del delitto.

Mazzara era noto per l’infallibilità

nel tiro con il fucile.

I bossoli calibro 12 ritrovati in

Contrada Lenzi, nel primo sopralluogo

dopo il delitto, provengono

dalla stessa arma utilizzata da

Mazzara per altri quattro omicidi:

Giuseppe Montalto, agente

di polizia penitenziaria (1995),

Giuseppe Piazza e Rosario Sciacca,

(1990), e Gaetano Pizzardi

(1995). È stata proprio la prova

balistica effettuata dalla scientifica,

arrivata dodici anni dopo

il delitto, a riaprire il caso. A

questo tassello se ne aggiunge

un altro. La sera del 26 settembre

del 1988 la strada che porta alla

comunità Saman era completamente

al buio. Non un lampione

funzionante lungo tutto il tratto

stradale. Un black out, dicono. Il

tecnico responsabile della zona

sarebbe stato trovato cadavere

pochi mesi dopo la morte di

Rostagno: era l’autista del boss

trapanese Vincenzo Virga.

E se non fosse solo mafia? Le

ragioni che hanno portato un sicario

a freddare con sei pallottole

il giornalista di Rtc potrebbero

non essere esclusivamente riconducibili

a Cosa nostra. Sono gli

stessi pm antimafia Ingroia e Paci a

dichiararlo. Se di verità giudiziaria

non si può ancora parlare lo si deve

alle interferenze di poteri occulti:

istituzionali, para-istituzionali, servizi

segreti deviati. «I depistaggi sul

delitto Rostagno sono stati sintomo

di altri interessi. Fu un delitto non

solo di mafia, possono esserci stati

altri interessi convergenti» ha dichiarato

il pm Antonio Ingroia. Ciò

che rende questa storia l’ennesimo

mistero italiano è il legame con Ilaria

Alpi, giornalista del Tg3 uccisa

a Mogadiscio nel 1994 insieme

al cameraman Milan Hrovatin.

Ilaria e Mauro, uccisi in anni e in

luoghi diversi, stavano indagando

su vicende simili: storie di armi e

rifiuti. Il mistero si infittisce ancor

più quando si parla di una cassetta

fatta sparire dalla redazione di

Rtc. Forse un servizio che Mauro

Rostagno avrebbe voluto trasmettere,

nonostante qualcuno glielo

avesse sconsigliato.

Il giornalista avrebbe infatti ripreso

uno strano traffico di armi presso

l’aereoporto di Kinisia, vicino a

Trapani. Agli aiuti umanitari per

la popolazione – probabilmente

l’aereo era diretto in Somalia –

uomini in divisa provvedevano

a sostituire il carico con casse

di armi e munizioni. Di quella

cassetta non si ha più traccia. E

poi alcuni personaggi che si incrociano

in entrambi i misteri. Una

figura su tutte è quella di Vincenzo

Licausi, uomo dei servizi segreti

appartenente alla loggia massonica

“Iside 2” radicata a Trapani. Morto

nel ’93 in uno strano incidente

militare in Somalia, Licausi era

a conoscenza dei traffici di armi

e rifiuti radioattivi con l’Italia. E

probabilmente ha incrociato le vite

di Mauro Rostagno ed Ilaria Alpi.

Altri sono i punti di contatto tra le

due vicende. Come i depistaggi, le

prove fatte misteriosamente sparire,

gli interventi dei servizi segreti,

l’interesse di una certa politica a

ostacolare l’attività d’inchiesta

dei due giornalisti. Tasselli che

compongono il mosaico di due

misteri all’italiana, dal tragico

epilogo.

Un plotone di testimoni. Il numero

dei testimoni chiamati a

deporre in aula toccherà quota

trecento. Un’ampia schiera di

testimoni è stata chiamata dalla

pubblica accusa, dalle parti civili

e dalle difese degli imputati

per far piena luce sul delitto.

Varcheranno l’aula Falcone del

tribunale di Trapani i collaboratori

di giustizia Sinacori e Siino,

gli agenti che negli anni hanno

condotto le indagini, gli ospiti

della struttura Saman, oltre a

tutti gli indagati dell’inchiesta

avviata nel 1996 dal procuratore

Gianfranco Garofalo. Compaiono

nella lista testimoni della difesa

anche nomi di spessore della

politica italiana, come gli esponenti

del Psi Claudio Martelli e

Bobo Craxi.

Se la pubblica accusa cercherà

di dare corpo alla pista mafiosa e

all’intreccio di poteri che hanno

voluto far tacere Mauro Rostagno,

la difesa di Vincenzo Virga e Vito

Mazzara punterà a dimostrare

l’estraneità degli assistiti virando

sul delitto interno a Saman.

Nella schiera dei trecento si leggono

i nomi di Francesco Cardella,

amico e fondatore con Mauro

Rostagno della comunità Saman,

e di Giuseppe Cammisa, suo

braccio destro. Difficilmente,

però, li si vedrà in aula. Cammisa,

accusato di essere l’esecutore

materiale del delitto del

giornalista – poi prosciolto – ha

un passato turbolento e oggi vive

in Ungheria. Imparentato con

boss di primo piano, è entrato in

comunità per disintossicarsi ed

è diventato l’uomo di fiducia di

Cardella. All’ex ospite di Saman,

Cardella affida il compito di

seguire un affare in una Somalia

dilaniata dalla guerra civile. È il

1994 e si trova a Bosaso. Dalla

commissione d’inchiesta sul

caso Alpi pare che Giuseppe

Cammisa sia stato uno delle

ultime persone a vedere in vita

la giornalista. Lui non ha mai

confermato l’incontro.

La volontà della pubblica accusa

è quella di giungere in tempi

rapidi alla sentenza di primo

grado. Un calendario fitto di

udienze – una alla settimana

– potrebbe portare la corte ad

esprimersi in tempi brevi.

Un atto dovuto nei confronti

di Mauro Rostagno e della sua

famiglia, che da ventidue anni

attendono giustizia.

14 | marzo 2011 | narcomafie

Rino Germanà entra nell’Aula

“Falcone” della Corte d’Assise di

Trapani il 16 febbraio del 2011. È

in corso la seconda udienza del processo

per individuare i responsabili

dell’assassinio di Mauro Rostagno,

freddato a Valderice il 26 settembre

del 1988. Sono anni che è lontano

da questa città, dove ha ricoperto il

ruolo del capo della Squadra mobile.

Interrogato dal pm Antonio Ingroia,

Germanà non ha dubbi nel delineare

i contorni del delitto e nel dare un

nome alla matrice dell’agguato:

mafia. Il giornalismo di Rostagno,

capace di scuotere le coscienze

dei trapanesi per la semplicità del

linguaggio, l’utilizzo dell’ironia e la

profondità dei contenuti, non poteva

essere sopportato dal mandamento

locale. E non solo da quello di Trapani.

L’intensa vita di Mauro Rostagno

conta varie tappe: animatore della

rivolta studentesca all’Università

di Trento, fondatore del movimento

Lotta Continua, seguace di Osho

alla ricerca della spiritualità in India,

ideatore di una comunità di

recupero per tossicodipendenti a

Trapani, giornalista televisivo. Le

piste seguite negli anni sono state

dunque le più disparate. Ma molti

colpevoli annunciati si sono poi

dimostrati estranei al delitto. Coincidenze

e depistaggi hanno dirottato

le indagini in diverse direzioni.

Verso Lotta Continua, inizialmente.

Nell’agosto del 1988, un mese prima

dalla morte, il giornalista ricevette

un mandato di comparizione dalla

procura di Milano, che stava indagando

sull’omicidio Calabresi,

del quale erano stati accusati –

poi successivamente condannati

– alcuni membri del movimento.

Inchiesta nata dal pentimento di

Leonardo Marino, ex militante di

Lotta Continua. Mauro Rostagno

dichiarò di voler essere ascoltato

dai giudici per chiarire la propria

posizione, l’estraneità sua e del

movimento al delitto. Poi, il 26

settembre, giunse all’appuntamento

con la morte. Iniziarono così a

circolare voci sempre più insistenti

che indicarono nei dirigenti di

Lotta Continua i mandanti: il loro

movente sarebbe stato quello di far

tacere l’ex compagno a conoscenza

del progetto di eliminare Calabresi.

Questo, in sostanza, il contenuto di

un’informativa inoltrata dall’allora

comandante del reparto operativo

dei carabinieri, Elio Dell’Anna, alla

Procura di Trapani. Il teorema del

delitto politico crolla dopo pochi

anni. Ma è nel 1996 che una nuova

indagine, poi dimostratasi un abbaglio

della magistratura, lascerà ferite

indelebili. L’impianto accusatorio

della procura di Trapani puntava

sul delitto maturato all’interno della

comunità Saman. Il pm Gianfranco

Garofalo è convinto che Chicca Roveri

– compagna di Mauro dal 1970,

da cui ha avuto la figlia Maddalena

– assieme a Francesco Cardella, guru

di Saman, e Monica Serra, in auto

con Mauro la sera dell’agguato, siano

coinvolti nel delitto, e li accusa di

favoreggiamento. Secondo Garofalo

sapevano del piano per eliminare il

giornalista, ma non hanno fatto nulla

per evitarlo, coprendo in seguito i

responsabili. Giuseppe Cammisa,

Giuseppe Rallo e Massimo Oldrini,

tre ospiti di Saman, sono accusati

di aver freddato Mauro a poche

centinaia di metri dalla comunità.

Così, mentre Chicca finisce in carcere,

Cardella si dà alla latitanza.

L’omicidio assume i contorni di un

delitto passionale, un regolamento

di conti per questioni di spaccio

all’interno della comunità. Importanti

quotidiani nazionali rincarano

la dose ospitando articoli adatti

alle riviste di gossip nei quali non

si risparmiano dettagli superflui,

inerenti la vita privata delle persone

a giudizio. Chicca Roveri affronta il

carcere e due lunghi anni di veleni,

infamie, accuse. Nel settembre del

1998 viene scagionata come gli altri

indiziati. Oggi siede in tribunale.

Vuole che una sentenza della magistratura

scriva finalmente, nero

su bianco, i nomi degli assassini.

Non è un riscatto personale, data

l’assoluzione completa dei reati a lei

ascritti anni fa. È un gesto d’amore

per Mauro e per la verità.

Rino Germanà entra nell’Aula
“Falcone” della Corte d’Assise di
Trapani il 16 febbraio del 2011. È
in corso la seconda udienza del processo
per individuare i responsabili
dell’assassinio di Mauro Rostagno,
freddato a Valderice il 26 settembre
del 1988. Sono anni che è lontano
da questa città, dove ha ricoperto il
ruolo del capo della Squadra mobile.
Interrogato dal pm Antonio Ingroia,
Germanà non ha dubbi nel delineare
i contorni del delitto e nel dare un
nome alla matrice dell’agguato:
mafia. Il giornalismo di Rostagno,
capace di scuotere le coscienze
dei trapanesi per la semplicità del
linguaggio, l’utilizzo dell’ironia e la
profondità dei contenuti, non poteva
essere sopportato dal mandamento
locale. E non solo da quello di Trapani.
L’intensa vita di Mauro Rostagno
conta varie tappe: animatore della
rivolta studentesca all’Università
di Trento, fondatore del movimento
Lotta Continua, seguace di Osho
alla ricerca della spiritualità in India,
ideatore di una comunità di
recupero per tossicodipendenti a
Trapani, giornalista televisivo. Le
piste seguite negli anni sono state
dunque le più disparate. Ma molti
colpevoli annunciati si sono poi
dimostrati estranei al delitto. Coincidenze
e depistaggi hanno dirottato
le indagini in diverse direzioni.
Verso Lotta Continua, inizialmente.
Nell’agosto del 1988, un mese prima
dalla morte, il giornalista ricevette
un mandato di comparizione dalla
procura di Milano, che stava indagando
sull’omicidio Calabresi,
del quale erano stati accusati –
poi successivamente condannati
– alcuni membri del movimento.
Inchiesta nata dal pentimento di
Leonardo Marino, ex militante di
Lotta Continua. Mauro Rostagno
dichiarò di voler essere ascoltato
dai giudici per chiarire la propria
posizione, l’estraneità sua e del
movimento al delitto. Poi, il 26
settembre, giunse all’appuntamento
con la morte. Iniziarono così a
circolare voci sempre più insistenti
che indicarono nei dirigenti di
Lotta Continua i mandanti: il loro
movente sarebbe stato quello di far
tacere l’ex compagno a conoscenza
del progetto di eliminare Calabresi.
Questo, in sostanza, il contenuto di
un’informativa inoltrata dall’allora
comandante del reparto operativo
dei carabinieri, Elio Dell’Anna, alla
Procura di Trapani. Il teorema del
delitto politico crolla dopo pochi
anni. Ma è nel 1996 che una nuova
indagine, poi dimostratasi un abbaglio
della magistratura, lascerà ferite
indelebili. L’impianto accusatorio
della procura di Trapani puntava
sul delitto maturato all’interno della
comunità Saman. Il pm Gianfranco
Garofalo è convinto che Chicca Roveri
– compagna di Mauro dal 1970,
da cui ha avuto la figlia Maddalena
– assieme a Francesco Cardella, guru
di Saman, e Monica Serra, in auto
con Mauro la sera dell’agguato, siano
coinvolti nel delitto, e li accusa di
favoreggiamento. Secondo Garofalo
sapevano del piano per eliminare il
giornalista, ma non hanno fatto nulla
per evitarlo, coprendo in seguito i
responsabili. Giuseppe Cammisa,
Giuseppe Rallo e Massimo Oldrini,
tre ospiti di Saman, sono accusati
di aver freddato Mauro a poche
centinaia di metri dalla comunità.
Così, mentre Chicca finisce in carcere,
Cardella si dà alla latitanza.
L’omicidio assume i contorni di un
delitto passionale, un regolamento
di conti per questioni di spaccio
all’interno della comunità. Importanti
quotidiani nazionali rincarano
la dose ospitando articoli adatti
alle riviste di gossip nei quali non
si risparmiano dettagli superflui,
inerenti la vita privata delle persone
a giudizio. Chicca Roveri affronta il
carcere e due lunghi anni di veleni,
infamie, accuse. Nel settembre del
1998 viene scagionata come gli altri
indiziati. Oggi siede in tribunale.
Vuole che una sentenza della magistratura
scriva finalmente, nero
su bianco, i nomi degli assassini.
Non è un riscatto personale, data
l’assoluzione completa dei reati a lei
ascritti anni fa. È un gesto d’amore
per Mauro e per la verità.
22 anni di depistaggi
di D. P.

Ultimi

Un milione e mezzo i bambini ucraini “inghiottiti” dalla Russia

Un milione e mezzo di bambini e adolescenti ucraini...

Ancora dossieraggi e schedature

Tornano dossier e schedature. Il video che è stato...

Podlech, il Cile lo ha condannato all’ergastolo

ERGASTOLO CILENO PER ALFONSO PODLECHI giudici cileni hanno aspettato...

Era ubriaca…

“Era ubriaca, così ha favorito chi le ha fatto...