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Domenica in Cina 100 manifestazioni di protesta

Cina, per domenica promosse manifestazioni di protesta in 100 città. L’onda araba è arrivata. L’articolo di Visetti su repubblica.it:

Vento di rivolta anche a Pechino
arrestati i dissidenti, censura sul web

Primi raduni pacifici nel Paese, convocati i giornalisti stranieri. I leader temono che il virus della libertà contagi anche le terre estreme d’Oriente. Oggi la scintilla si chiama Internet. Domenica prossima migliaia di cinesi sono invitati a occupare silenziosamente il centro di oltre cento città

dal nostro corrispondente GIAMPAOLO VISETTI

PECHINO – Wang Fujing, prima strada dei negozi occidentali a Pechino, non è mai stata così pulita. Scorre a due passi da Tienanmen e nel 1989 fu usata per ammassare i carri armati del regime comunista prima della strage degli studenti. Anche piazza Renmin, cuore di Shanghai, viene sommersa dall’acqua più volte al giorno. La Cina è afflitta dalla peggiore siccità degli ultimi cent’anni, ma le autorità non risparmiano autobotti. Fingere una maniacale pulizia dei luoghi pubblici, o aprire cantieri improvvisi attorno a siti sospetti, è il sistema che le autorità della seconda potenza mondiale adottano da due settimane per scacciare, con i pedoni, lo spettro di una rivoluzione. Nessuno, in Cina e all’estero, annusa oggi un’aria da ribellione nel Paese simbolo della crescita, in cui tutti disperatamente confidano. La potenza di Internet rovescia però le dittature dell’Africa mediterranea, il domino democratico si estende nel Medio Oriente e i leader della nazione più popolosa del pianeta, esempio unico di autoritarismo di mercato, temono che il virus della libertà contagi anche le terre estreme dell’Est.

E’ la prima volta che una rivoluzione esordisce senza rivoluzionari, promossa solo dal loro fantasma elettronico. Ma per la leadership di Pechino, prossima alla pensione, la differenza non è sostanziale. E’ l’ultima generazione di capi rieducati da Mao Zedong, che insegnava come sia una scintilla a bruciare la prateria. Si svuotano dunque i laghi della capitale, per annegare preventivamente l’evocata “rivoluzione dei gelsomini”, come è stata definita per tirare un filo che colleghi la Cina alle prime insurrezioni del 2011, in Egitto e Tunisia. Il popolo del web e le forze dell’ordine assicurano che l’onda della protesta si è alzata domenica 20 febbraio. I cinesi estranei al partito e all’esercito per ora non se ne sono accorti, ma nei palazzi del potere il misterioso allarme scatena una sorprendente isteria. Il primo appello sulla Rete a “manifestare pacificamente per chiedere democrazia, libertà e giustizia” dava appuntamento ogni domenica alle 14 nel centro di una ventina di città-chiave. E’ stato raccolto da poche centinaia di persone. Per il dissenso in esilio la ragione è semplice: la censura calata su Internet e sulla stampa governativa impedisce alla gente di sapere che anche in Cina, 62 anni dopo quella comunista partita dalle campagne, sta per scoppiare nell’etere una rivoluzione per cacciare i nipoti della Lunga Marcia. Anche per il potere il motivo per cui la ribellione cinese finora è essenzialmente mediatica, è elementare: nessuno o quasi vuole farla. La realtà è più complessa e spiega perché, in assenza di scontri, da un paio di settimane la Cina vive come se qualcuno stesse per infrangere la sua preziosa stabilità. Nella prima “domenica dei gelsomini” è stato difficile distinguere la folla impegnata nello shopping da quella scesa in strada per testimoniare un silenzioso dissenso.

Nessuno slogan, non uno striscione, nemmeno un insorto riconoscibile. A Pechino, fuori dal McDonald’s su Wang Fujing, alcuni ragazzi hanno lanciato in aria tre mazzi di crisantemi bianchi. In questa stagione in Oriente i gelsomini non sono fioriti, ma è bastata l’esibizione generica di fiori per essere picchiati e arrestati dagli agenti. Tra gli spettatori c’era “per caso” anche l’ambasciatore americano in Cina, Jon Huntsman, prossimo candidato repubblicano alle presidenziali. Passava di lì per mano con la figlia e ai funzionari del partito è andato il sangue alla testa. In poche ore la nazione, tutta concentrata a battere ogni primato di arricchimento, è riprecipitata nelle atmosfere sinistre dell’89, o delle più recenti repressioni contro il Falun Gong, in Tibet e nello Xinjiang, o contro chi solo stima Liu Xiaobo, ultimo premio Nobel per la pace. La “Grande Muraglia di Fuoco” è ricalata sulla Rete, censurando decine di parole, tra cui “Huntsman”, o “gelsomino”. Il governo ha scatenato la propaganda contro “le forze straniere ostili” e per chiarire a ognuno un concetto: la Cina non è il Nord Africa e la sola idea di una rivoluzione è ridicola. Nessuno ha osato sostenere il contrario ma il fuoco, stranamente, non si è spento. Nuovi appelli anonimi alla rivolta domenicale, dalla settimana scorsa a ieri, si moltiplicano sul web. Venerdì una decina di avvocati e un centinaio di dissidenti storici, sono stati arrestati senza motivo. Domenica scorsa Pechino, Shanghai e le più importanti città cinesi sono state blindate e allagate dall’esercito. Poiché i dimostranti latitavano, pattuglie e milizie se la sono presa con i giornalisti stranieri, accorsi in massa, e con allibiti passanti. La tensione, pur in assenza di fatti, continua a salire: domenica prossima migliaia di cinesi sono invitati a occupare silenziosamente il centro di oltre cento città e la rivoluzione che non c’è per il governo è come se ci fosse.

Nessuno può razionalmente spiegare cosa in Cina stia accadendo, ma descrivere questo anomalo dissenso elettronico, soffocato con l’antica violenza, non significa testimoniare che qualcosa di importante non si stia verificando. Il Paese cresce, ma inizia a sentire il fiato delle contraddizioni capitaliste. Il regime è saldo, ma nel pieno di una conflittuale e lunga fase di passaggio personale del potere. L’incubo Corea del Nord, dove l’effetto-Libia può realmente far implodere la dittatura famigliare dei Kim, da mesi toglie il sonno a Pechino. Tra poche ore si aprirà la sessione annuale del parlamento, pronta a varare la più profonda riforma nazionale dall’epoca di Deng Xiaoping. Nuovi interessi, esclusi e forze armate bussano alla porta vecchia del partito, ultimamente incline alle promesse. Sono centinaia di milioni di individui, armati di rivendicazioni opposte. Distanza e distinzioni da Tripoli, dopo che l’e-vaso del diritto alla dignità si è rotto, possono non rivelarsi più determinanti. Mostrare al mondo come si spegne una scintilla anche se non c’è, a un secolo dalla prima rivoluzione repubblicana, è l’estrema via alla stabilità con caratteristiche cinesi.

(02 marzo 2011)

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