Identificate dai Ris due vittime delle Fosse Ardeatine: Moscati e La Rosa
mercoledì, 23 Marzo, 2011LA STRAGE DEI NAZISTI IL 24 MARZO 1944
Eccidio delle Fosse Ardeatine,
67 anni dopo due nuovi nomi
Dopo mesi di lavoro, i carabinieri del Ris sono riusciti ad identificare i resti di due vittime della strage nazista rimaste finora ignote. Ancora 10 tombe anonime su 335
Un fiore per Marco e Salvatore. E presto, forse, anche per qualche altro tra i dieci poveri “ignoti” del grande sterminio delle Ardeatine. Un fiore, una tomba, il nome e cognome, una lapide che finalmente si materializza 67 anni dopo il giorno in cui sono morti con un colpo alla nuca in quella che è stata una delle più buie stragi del nazifascismo. Identificati i resti di Marco Moscati (nella foto sopra a sinistra) e di Salvatore La Rosa (nella foto sopra a destra) in due delle dodici tombe rimaste finora senza nome delle Fosse Ardeatine. L’identificazione portata a termine dai carabinieri del Ris che per molti mesi, dopo aver ricevuto da Onorcaduti l’incarico di occuparsi dei resti dei caduti senza nome, hanno indagato sul dna di ciò che rimane nei sepolcri anonimi del sacrario romano. Erano dodici ignoti su 335 caduti, ora sono ridotti a dieci. Poi ieri la comunicazione alle due famiglie, che hanno ringraziato i militari dell’Arma. Il nipote di Moscati, Israel Cesare, si è anche precipitato al sacrario ma quando è arrivato era ormai chiuso. Questa mattina è corso di nuovo lì con suo padre Angelo, domani leggerà durante la cerimonia una lettera della sua famiglia.
Ogni anno il Capo dello Stato entra alle Fosse Ardeatine e dopo essere passato di fronte al palco che riunisce autorità e rappresentanti delle famiglie delle vittime sosta in raccoglimento di fronte alla lapide che ricorda le 335 vittime. Così inizia la cerimonia del 24 marzo per ricordare la strage. Poi come ogni anno il profondo silenzio viene rotto dalla lettura del lunghissimo elenco dei morti, una lista in ordine alfabetico da Ferdinando Agnini ad Augusto Zironi a cui segue, in conclusione, un’ultima gelida notazione: “Ignoti 12”. Così anno dopo anno, per sessantasei anni. Ma stavolta, il 24 marzo del 2011, ecco questa grande novità: dopo Emanuele Moscati risuonerà anche il nome di suo fratello Marco Moscati, ebreo partigiano. E dopo quello di Boris Landesman ci sarà quello di Salvatore La Rosa, un soldato siciliano sbandato dopo l’8 settembre e poi tradito a Roma da una spiata che lo aveva fatto rinchiudere a Regina Coeli.
Marco Moscati, Salvatore La Rosa: la notizia del riconoscimento coglie di sorpresa, i carabinieri del Ris sono riusciti dove non si era riusciti prima, dopo aver riesumato però resti di tutti i dodici sarcofagi rimasti senza nome e cioè il 3, 52, 98, 122, 155, 264, 272, 273, 276, 283, 284 e 329. Avevano a disposizione cinque dna di familiari delle vittime. Marco Moscati era nel sarcofago 283 e Salvatore La Rosa nel 273. Il dna delle ossa del 283 ha combaciato con quello fornito da Angelo Moscati, fratello della vittima, e quello dei resti del 273 è lo stesso di quello fornito dalla figlia di Salvatore La Rosa, la signora Angela Alaimo La Rosa di Aragona, un paese dell’agrigentino in Sicilia. La genetica ha finalmente avuto ragione della barbarie che imponeva per queste vittime un lutto senza un luogo preciso. Marco Moscati, giovane piazzista, aveva solo 24 anni quando era stato ucciso. L’avevano arrestato per una spiata il 15 febbraio del ’44, sulla scalinata di Trinità dei Monti. Era andato nei pressi di piazza di Spagna a rilevare un piccolo carico di armi che doveva portare a un gruppo partigiano dei Castelli. Mentre stava pagando erano arrivati i fascisti, lo avevano inseguito sparandogli dietro, l’avevano acciuffato sulle scale. Alle Ardeatine si era ritrovato col fratello Emanuele, trent’anni ancora da compuere. Un altro degli otto fratelli Moscati, David, è uno dei morti di Auschwitz, aveva solo 17 anni.
Ci sono voluti tanti, troppi anni. Ma ora il grande mistero delle Fosse Ardeatine ha iniziato a sgretolarsi. Restano ancora dieci tombe a cui dare un nome. I carabinieri del Ris non disperano di poter aggiungere altre identificazioni. Prima del risultato di oggi ci sono state le docce fredde del passato: due anni fa un primo tentativo era andato a vuoto, lo avevano finanziato di tasca propria i parenti di Marco Moscati. Avevano puntato tutto su un’unica tomba, la 329, l’unica contrassegnata da una stella di David. Speravano di potervi trovare i resti di Marco Moscati, ebreo, partigiano, attivo ai Castelli. A chiederlo era soprattutto l’anziano Angelo (nella foto sotto con le immagini dei due fratelli) che alle Fosse Ardeatine sa di avere due fratelli: Emanuele, nel sarcofago 245, e Marco che non si sapeva dove fosse esattamente. E con Angelo a cercare la verità c’era tutta la famiglia Moscati. Poi però un anno fa ecco arrivare il responso. Il genetista di Tor Vergata Giuseppe Novelli, affiancato dal medico legale Giovanni Arcudi e da Liana Veneziano del Cnr, mon è riuscito a far combaciare i dna. Sono diversi. Il partigiano Marco Moscati infatti non era in quel sarcofago 329. Novelli, uno specialista del dna, non aveva potuto fare di più.
Un mistero inquietante, quello dei dodici sarcofagi senza nome. Si sapeva infatti che dal carcere di Regina Coeli erano usciti in 335, caricati su camion diretti alle cave ardeatine in quel primo pomeriggio del 24 marzo del 1944 per andare alla morte. Unico testimone dell’eccidio un porcaro che da una collinetta vicina aveva assistito sgomento alla strage senza poter far nulla. Poi sulla città che s’interrogava era calato quel drammatico comunicato del Comando tedesco: “L’ordine è stato eseguito…”. Era marzo e solo in giugno, dopo l’ingresso in Roma degli Alleati, era stato scoperto il luogo dell’eccidio. Nel luglio del ’44 il professor Ascarelli aveva riesumato le vittime, estraendole una ad una dall’orribile mucchio che i tedeschi avevano fatto in fondo alle gallerie delle cave. Un parallelepideo di corpi largo cinque metri, lungo altrettanto e alto un metro e mezzo. Corpi macerati, che i nazisti di Kappler e Priebke avevano cercato di nascondere invano minando le entrate delle cave ma fallendo nel proposito. Il riconoscimento delle vittime in quell’estate terribile del ’44 era andato avanti a lungo, in mezzo a enormi difficoltà, affidato ai poveri familiari in cerca di qualche segno, un vecchio orologio, un brandello di vestito, montature di occhiali, cifre di ricami, fatture, anelli, penne stilografiche, fazzoletti. I corpi, no, quelli dopo quattro mesi erano purtroppo irriconoscibili. Alla fine il conto degli identificati si era fermato a 323 vittime. E così era rimasto da allora. Dodici i non identificati. Eppure si sapevano i nomi di parecchie delle vittime rimaste senza una tomba certa. Cinque i nomi di ebrei come Marco Moscati: Cesare Calò, Marian Reicher, Bernard Soike, Hein Eric Tuchmann. E poi i nomi di Salvatore La Rosa, Alfredo Maggini, Remo Monti, Michele Partiti, Cosimo Di Micco. Per anni alcune famiglie, dai De Micco a La Rosa ai Moscati, hanno chiesto, invano, un aiuto. Qualcuno di loro, come Angela La Rosa, ha scritto a molti presidenti della repubblica e ad autorità varie. Forse non ci sperava più.
Sembrava che la riesumazione e la ricerca delle identità con le nuove tecniche fosse infatti un’impresa impossibile. «La riesumazione? Se la paghino le famiglie. E poi bisogna che tutte e dieci siano d’ accordo…»: così la sostanza della risposta che Onorcaduti, struttura del Ministero della Difesa, aveva dato a una lettera di Walter Veltroni tempo fa. Nel 2008 la famiglia di Marco Moscati aveva autonomamente raccolto la somma necessaria per tentare quel riconoscimento poi fallito. «Presidente Napolitano, ci aiuti lei – era stata infine alla cerimonia del 2010 l’esortazione di Rosetta Stame, presidente dell’ Anfim -. Dobbiamo finalmente dare un nome a tutti i nostri caduti…». E così finalmente qualcosa è cambiato, Onorcaduti ha mutato indirizzo, è stato chiamato in causa il Ris dei carabinieri. A effettuare la lunga e meticolosa ricerca è stata la struttura guidata dal tenente colonnello Luigi Ripani, l’incarico specifico è stato assunto dal maggiore Andrea Berti. Un lavoro difficile, meticoloso, complicato, possibile solo con l’aiuto di congiunti diretti. E che sta dando ora i suoi primi frutti. “Abbiamo potuto lavorare su tutti e dodici i resti – spiegano al Ris -, questo è stato decisivo per raggiungere il risultato di oggi. I dna forniti dalle famiglie sono stati finora solo cinque”.
Paolo Brogi
Corriere della Sera
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