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Ajack Al Dor Ya Doctor…Le scritte dei ragazzi che hanno infiammato la Siria. Oggi la polizia ha sparato, altri morti

Reportage da Deraa, Siria. E cco come è nata la rivolta, dalle scritte di cinque ragazzini che avevano seguito in tv le vicende del Maghreb. Incarcerati…Davide Frattini ci spiega bene su corriere.it tutto quanto, compreso chi ha sparato, gli inviati di Assad da Damasco. Che oggi sono frornati a sparare sui manifestanti facendo quatro morti.

DERAA – Il soldato stringe il blocco di fogli sgualciti, la lista dei ricercati è scritta a penna. Chi esce in manifestazione entra nell’elenco. I posti di blocco sono predisposti a cerchi che si stringono verso il centro di Deraa per strangolare la rivolta. Un’intera città è agli arresti domiciliari. Gli oppositori sono braccati e seguono i percorsi sulla mappa mentale disegnata dalla paura. Schivano le pattuglie della Guardia Repubblicana, le forze speciali comandate da Maher Assad, il fratello minore del presidente. In strada ci sono loro: armati di fucili mitragliatori, sorvegliano dalle torrette dei blindati. I gabbiotti della polizia restano deserti da giorni.

I centodieci chilometri da Damasco verso sud e il confine con la Giordania attraversano la piana di Hauran e i campus universitari, la promessa mantenuta dal leader di garantire l’educazione ai giovani siriani, che prima finivano esportati (negli atenei in Russia o nei Paesi arabi) come i pomodori coltivati in questa regione molto fertile. L’autostrada a quattro corsie scende parallela alla vecchia provinciale, che si spezza verso i villaggi dove i cammelli pascolano tra i dadi grigi delle case non intonacate. I carrarmati controllano gli ingressi a questi incroci, la ribellione è iniziata tra i 350 mila abitanti di Deraa e si è estesa ai villaggi di tutta la zona, dove i sunniti sono ancor più maggioranza che nel resto del Paese. Gli alauiti al potere, la setta religiosa della famiglia Assad, sono ossessionati da un’insurrezione etnica che parta dalle tribù di quest’area.

Le vie di Deraa svelano che la calma apparente della capitale qui è stata fracassata. I resti dei cassonetti e delle gomme bruciate, le pietre rimaste sull’asfalto come i bossoli dopo la battaglia. Bashar Assad annuncia un’inchiesta della magistratura sulle violenze e sulla repressione (il governatore sarebbe stato rimosso). Suleiman Khalidi, giornalista giordano dell’agenza Reuters, è scomparso nei giorni scorsi mentre si stava muovendo da queste parti. Il regime non vuole che la città sotto assedio racconti la sua storia.

L’appartamento in periferia è protetto solo dal giro intricato che bisogna percorrere per raggiungerlo. Fino a tre anni fa, Ahmed (ha chiesto di non usare il vero nome) aveva un impiego pubblico. E’ stato cacciato dallo Stato dopo aver sostenuto la Dichiarazione di Damasco, il manifesto che invoca la fine delle leggi d’emergenza, la libertà di parola e il pluralismo politico.

I cinque uomini nella stanza fumano e bevono caffè turco, mentre ricostruiscono le quattordici giornate di Deera, la rivolta che nessuno in Siria avrebbe immaginato: i video ripresi con i telefonini mostrano i manifestanti che stracciano il poster di un sorridente Bashar, la demolizione di una statua del padre Hafez, l’ufficio del Baath, il partito unico al potere, in fiamme. Nella loro versione, inzeppata della paura di chi vive accerchiato e dei buchi di chi non può verificare le voci, tutto è cominciato così.
«Alla fine di febbraio, un gruppo di ragazzini decide di imitare i giovani che hanno visto ribellarsi dalla Tunisia all’Egitto. Ripetono lo slogan che hanno sentito in televisione: basta con il regime. Creano la rima con la parola dottore perché così in Siria tutti chiamiamo Bashar Assad: . Lo scrivono con lo spray rosso sui muri di cinta in quattro scuole. La frase viene subito coperta con la vernice bianca, la polizia cerca i colpevoli.

«Hanno tredici anni, il più giovane undici, è solo una spacconata. La loro giovane età non impietosisce il regime. In quindici vengono fermati e incarcerati. I padri e le madri vanno alla caserma della polizia militare, il comandante nega che i figli siano stati arrestati. I genitori si rivolgono al governatore Feisal Kalthoum, che li minaccia (“se volete vederli, vi sbatto dentro con loro”) e li fa cacciare dalle guardie. «Venerdì 18 marzo, dopo la preghiera di mezzogiorno, la gente esce dalla moschea Omar Ibn Al Khattab, la più grande della città, e forma un corteo. Tremila persone protestano e chiedono il rilascio dei bambini. Gli agenti sparano lacrimogeni e caricano con i bastoni. Questa volta il governatore prova a dialogare, c’è molta tensione. Parte dei ragazzini viene rilasciata, gli altri dopo due giorni. Raccontano di essere stati picchiati, girano voci – non possiamo confermarlo – che a qualcuno di loro siano state strappate le unghie delle mani.

«Sabato le proteste continuano e l’esercito circonda la città. Non sono i soldati ad avere sparato contro la gente, loro sono tranquilli. Hanno mandato le squadre speciali dalla capitale, sono sbarcate da sette elicotteri e dai blindati. I morti sono difficili da contare: in tutta la regione di Hauran, 150 corpi sarebbero stati restituiti alle famiglie, 50 risulterebbero ancora scomparsi.
«Qui non ci sono gli shabiha, gli sgherri del regime, come a Latakia. Siamo una comunità unita. I cristiani hanno aiutato noi sunniti, hanno nascosto e curato i feriti. I pochi alauiti che vivono tra di noi non sono stati toccati. Non è vero come sostiene il regime che c’è uno scontro religioso.
«Siamo isolati, da dodici giorni Internet è bloccata. Venerdì all’uscita delle moschee (oggi, ndr) torniamo in strada. Non possiamo più fermarci».

Davide Frattini
01 aprile 2011

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