Tutta l’Europa meridionale e anche buoni pezzi di Africa settentrionale sono ormai un cimitero di immigrati morti in mezzo al mare che tentavano di attraversare o ai fiumi che cercavano di superare. Ci sono cimiteri vicino al fiume Evros, in Grecia, pieni di morti senza nome. E dalla parte opposta c’è in punta d’Europa, oltre Gibilterra e Algeciras, il cimitero di Tarifa, la bella e ventosa cittadina dove i giovani ragazzi d’Europa vanno a fare il surf e dove il camposanto è zeppo di lapidi senza nome.
Oggi il Corriere della sera dedica un pezzo alle foto fatte con l’Iphone da Carlo Ottaviano nel cimitero do Scicli, nel ragusano. Ottaviano, direttore del Gambero Rosso, che va in quel cimitero per la tomba di suo padre, ha fotografato queste lapidi con su attaccati fogli A4 per segnalare presenza di cadaveri numero taldeitali, di ignoti. I fogli volano via col vento, Scicli è un posto ventoso, la morte di queste persone perde spesso anche il suo modulo A4.
Scrive Marisa Fumagalli: C’è un angolo del cimitero di Scicli, città barocca celebrata da Elio Vittorini («Forse è la più bella di tutte le città del mondo. E la gente è contenta nelle città che sono belle…»), dove il visitatore s’imbatte in alcune lapidi rudimentali —lastre sottili di marmo sormontate da una tavoletta di legno con un foglio scolorito e strappato — che testimoniano la sepoltura dei clandestini senza nome. Naufraghi dei viaggi della speranza, in quel braccio di Mediterraneo, solcato dai barconi stipati all’inverosimile. Oggi, queste storie sono di bruciante attualità: fughe di massa, tensioni, morti. Persone. (Anche a Lampedusa ci sono migranti sottoterra, senza nome. In 13 anni, il guardiano del cimitero ha provveduto alla sepoltura di un’ottantina di corpi. E il settimanale Famiglia Cristiana, qualche giorno fa, ha invitato polemicamente il premier Berlusconi «a restaurare queste tombe, invece di pensare alla villa e al golf»).
Le foto scattate nel cimitero di Sicilia sono arrivate a noi, per caso. Non da un professionista. L’autore è Carlo Ottaviano, direttore del mensile Gambero Rosso, ragusano d’origine. Ma i suoi cari sono sepolti a Scicli. Racconta: «Avevo visto altre volte quelle lapidi. Avevo portato anche un fiore, come talvolta fanno altri visitatori. Lo scorso gennaio, d’istinto, mi è venuta l’idea di fermare le immagini». Brandelli di vite misteriose come leggiamo sul foglio bianco di una delle tombe: cadavere di persona sconosciuta, sbarco Donnalucata. 04.12.2004.
Con Sampieri e Cava d’Aliga, Donnalucata è una delle località del comune di Scicli, dove approdano le barche degli extracomunitari. «Siamo più a sud di Tunisi e le spiagge sono uguali a quelle nordafricane — dice Ottaviano —. Ve n’è una, nei pressi di Punta Corvo, un tempo chiamata costa dei contrabbandieri, che è diventata punto di sbarco dei migranti». Ma succede anche che il mare, oltre ai vivi, porti sulla sabbia i morti annegati. «Il naufragio dei senza nome che a Scicli tutti ricordano avvenne nel novembre del 2005 — spiega Adolfo Padua, ex sindaco della città —. La carretta del mare proveniva da Malta, e numerosi furono i cadaveri ripescati vicino alla costa». Aggiunge altri dettagli Giuseppe Savà, curatore di Sciclì news: «Erano cinesi, tutti molto giovani, sui vent’anni. Non furono mai identificati e nessuno ha mai reclamato i loro corpi». Così i ragazzi dell’Estremo Oriente finirono nel piccolo cimitero, accanto agli altri senza nome.
Eppure va avanti così dal 1996. E’ quello l’anno in cui la tragedia iniziò con i 300 immigrati di Portopalo. Giovanni Maria Bellu, oggi all’Unità, gli ha dedicato un bellissimo libro: I fantasmi di Portopalo. Che cosa racconta? Quello che è successo nella notte di Natale del 1996 nel canale di Sicilia, la strage di trecento clandestini di origine pakistana, indiana e tamil, che morirono per l’affondamento di una “carretta del mare” del tutto inadeguata a sopportare un tale carico. Il fatto passò quasi completamente sotto silenzio. Nulla avvenne durante quei giorni di festa e quando all’inizio di gennaio arrivarpno dalla Grecia le prime denunce dell’accaduto, la reazione delle autorità italiane fu il rifiuto di credervi: come poteva veramente essere successa una tragedia di simili proporzioni senza che il mare e le coste siciliane ne portassero la traccia? Infatti anche a distanza di settimane non era ancora venuto a galla alcun resto del naufragio. Ma allora che cosa era accaduto?
Nei mesi seguenti i pescatori di Portopalo di Capo Passero, che battevano quel tratto di mare, trovarono ogni giorno nelle proprie reti, insieme al pescato, corpi umani. L’avvio di qualsiasi indagine avrebbe significato la chiusura dello spazio di pesca per un tempo indeterminato. Che fare allora di quei cadaveri? Tutti presero la stessa decisione.
I fantasmi di Portopalo è la ricostruzione di questa incredibile vicenda, la storia, raccontata in prima persona, di come Giovanni Maria Bellu sia riuscito a dimostrare che quel naufragio è davvero avvenuto e di come un intero paese abbia custodito per anni un atroce segreto. Ma anche il racconto di un viaggio, quello di Anpalagan, un giovane tamil che, insieme a un gruppo di amici, aveva vinto, nella sua cittadina dello Sri Lanka, una “borsa di studio” messa a disposizione dalla comunità: 6500 dollari per pagare i trafficanti che lo avrebbero dovuto portare in Europa. Un viaggio in condizioni estreme, che durò mesi e che finì tragicamente a poche miglia dall’arrivo.
Frontiera sud, di Stefano Simonicini, per Fandango, uscito più o meno col libro di Bellu, ha raccontato invece la morte davanti alle coste spagnole e gli ignoti del cimitero di Tarifa.
Ecco dei testi e degli articoli che dovrebbero essere ricordati agli spietati strateghi del centro destra che trattano gli immigrati come bestie di cui sbarazzasi quanto prima, senza neanche un briciolo di pietà per chi muore.
Fa bene Famiglia Cristiana, lo ha ricordato oggi Marisa Fumagalli, a dire a Berlusconi di spendere qualche soldo in meno nelle sue costose ville e qualcosa invece nel restauro di queste tombe senza nome. Perlomeno impari dai volontari di Siciliana (Agrigento) che il giorno dei morti portano fuiori anche alle tombe dei migranti arrivati morti dal mare (nella foto un volontario depone fiori).
Un anno fa Fortress Europe fece un calcolo dei morti del Mediterraneo in oltre venti anni anni. Il calcolo superò quota quindicimila morti. Dal 1988 ad oggi secondo Fortress Europe i morti documentati sulla stampa internazionale sono stati 12.959, tra cui si contano 4.255 dispersi. Secondo i dati raccolti dall’osservatorio, nel Mediterraneo e verso le Canarie sono annegate 8.354 persone tra migranti e rifugiati negli ultimi vent’anni. Metà delle salme (4.255) non sono mai state recuperate. Nel Canale di Sicilia tra la Libia, l’Egitto, la Tunisia, Malta e l’Italia le vittime sono 2.514, tra cui 1.549 dispersi. Altre 70 persone sono morte navigando dall’Algeria verso la Sardegna. Lungo le rotte che vanno dal Marocco, dall’Algeria, dal Sahara occidentale, dalla Mauritania e dal Senegal alla Spagna, puntando verso le isole Canarie o attraversando lo stretto di Gibilterra sono morte almeno 4.127 persone di cui 1.986 risultano disperse. Nell’Egeo invece, tra la Turchia e la Grecia, hanno perso la vita 895 migranti, tra i quali si contano 461 dispersi. Infine, nel Mare Adriatico, tra l’Albania, il Montenegro e l’Italia, negli anni passati sono morte 603 persone, delle quali 220 sono disperse. Inoltre, almeno 597 migranti sono annegati sulle rotte per l’isola francese di Mayotte, nell’oceano Indiano. E poi c’è il cimitero del Sahara, il mare di sabbia rovente, che ne ha inghiottiti chissà quanti. Tutti questi dati sono precedenti l’attuale crisi. Nessuno sa quanti sono i morti dell’emigrazione oggi. Sono più degli abitanti di una città, una città di fantasmi che l’Europa non vuol vedere.