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Io prete non posso più tacere…Fermiamo a Milano l’imbarbarimento al limite del razzismo

‘Io, prete, non posso più tacere’

di Mauro Munafò

«Non è il momento di stare zitti: bisogna fermare questo imbarbarimento livoroso e al limite del razzismo. Per questo ho reso pubblico il mio voto a Milano». Parla don Virginio Colmegna, già numero uno della Caritas ambrosiana e da sempre impegnato nel sociale

Don Virginio Colmegna, 65 anni, non è un prete qualsiasi. Da quarant’anni si occupa della società che lo circonda, delle povertà vecchie e nuove, dei problemi di tutti e degli emarginati in particolare. Negli anni Ottanta è stato vicepresidente del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza, nel 1993 direttore della Caritas Ambrosiana (scelto dal cardinal Martini), nel 1998 presidente di un’agenzia per il reinserimento lavorativo dei detenuti. Dal 2001 è presidente del progetto Equal “Sostegno all’imprenditorialità sociale” e nel 2002, sempre per iniziativa del cardinal Martini, è diventato presidente della Casa della Carità, di cui ora si occupa a tempo pieno. Ma prima del 2011, nonostante tutte queste attività, don Colmegna non aveva mai preso una posizione politica aperta e pubblica a favore di questo o di quello. Lo ha fatto quest’anno, schierandosi per Giuliano Pisapia. ‘L’Espresso’ lo ha intervistato.

Il suo appoggio a Pisapia ha scatenato le polemiche di parte del mondo cattolico, con in testa il settimanale di Comunione e Liberazione, ‘Tempi’. Si è pentito?
«No, io ho fatto una scelta straordinaria per la situazione che si sta vivendo qui a Milano. Lavoro da anni sul tema dell’ospitalità e della condivisione, e questo lavoro ha bisogno come il pane di una certa cultura: la cultura dei legami e non del rifiuto e dell’inimicizia. In questa campagna elettorale, ma anche prima, una parte politica ha individuato un capro espiatorio e fatto una cultura di contrapposizione e falsificazione continua. Questa cultura rende impossibile politiche di inclusione: al massimo concepisce politiche di emergenza. Interpellato da cittadino ho scelto di indicare Pisapia».

Chi la critica sostiene che lei ha dimenticato i principi non negoziabili della Chiesa.
«Accettare che Milano sia ricoperta da certi cartelli è come legittimare battaglie oltranziste di una cultura pre-razzista. Una cultura che per coscienza non posso legittimare. Questo è un principio non negoziabile. Non tiriamo in mezzo problemi che non ci sono nelle amministrative, come l’eutanasia: su quelli dobbiamo discutere e ne discuteremo, ma Milano si confronta su altro. La campagna la hanno fatta si nomadi, sulla moschea e la libertà di culto. E quindi rispetto a questo devo dire no e mi colloco da un’altra parte. Non resto neutro, questi l’hanno presa aggressiva».

A proposito, che effetto fa vedere Milano ricoperta da cartelli contro la “Zingaropoli” di Pisapia?
«Quel termine mi fa male. Ho qui delle persone che hanno gioito di non essere più chiamate rom, ma con un nome e un cognome grazie alla carta d’identità, o donne che si sono inserite e mandano i figli a scuola. Pensate a queste persone, che hanno fatto un lungo percorso di cittadinanza, hanno vissuto questa campagna elettorale e si sentono addosso quel marchio. Un clima così è triste e sbagliato. Il mio modo di essere prete non mi permette di stare zitto. So che l’altro non è l’ideale e ci sarà sempre fatica nelle scelte di parte. Ma non si può tacere».

Cosa è cambiato rispetto alla tornata di cinque anni fa?
«C’è una differenza radicale rispetto alle precedenti elezioni. La Moratti, pur in una coalizione diversa, si era presentata con una lista autonoma, non era iscritta a nessun partito e aveva portato avanti l’idea di ricostruire la società civile. Adesso ha fatto un’altra scelta, con un’appartenenza e un capolista (Berlusconi ndr) e addirittura con la Lega, con cui su alcuni punti si può anche andar d’accordo, ma i cui contenuti fondamentali sono aggressivi».

La Lega e la gestione della sicurezza dell’amministrazione Moratti sono al centro della sua presa di posizione.
«La politica deve trovare il modo di risolvere i problemi. Dire “non vogliamo nessun rom” o “via i campi nomadi”, è un bell’urlo che può essere affidato alla pancia delle gente, ma la paura lascia i problemi irrisolti. La politica deve occuparsi del “come”: il come è scomparso e il come non si risolve con la politica del braccio di ferro, del mostrare i muscoli, ma con mediazione sociale e proposte contrattate. Affrontare il tema dell’abitare e dei bimbi a scuola, guardare in faccia il rom, la persona debole psicologicamente e ripartire offrendo loro non dei regali, ma un’opportunità che abbassi la paura e affronti il problema della sicurezza».

(Dall’ Espresso)

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