Cara Pacita
lunedì, 11 Luglio, 2011Cara Pacita,
ho visto come ti brillavano gli occhi quando poco tempo fa il fratello maggiore di tuo padre, Hugo, raccontava cosa facevano i fratelli Venturelli da giovani, lui Hugo con Omar e Aliro il più piccolo, su per le Ande, in Araucania, oltre Capitan Pastena, a cavallo lungo i fiumi tirando la rete da una parte e dall’altra per acchiappare qualche pesce.
In quella terra dove per masticare i piñones gialli del grande albero bisogna bollirli per un paio di ore, Omar Venturelli prete non si accontentava della sua chiesa, andava tra i mapuche che tornavano con Unidad Popular a reclamare quella terra che non dovrebbe essere di nessuno e che i terratenientes avevano strappato all’uso comune facendola propria, il sacerdote che suonava l’accordéon era diventato un difensore di quei deboli. Perciò l’avevano sospeso a divinis già prima del golpe…
Hugo, ingegnere, passato da Roma per assistere a un’udienza del processo celebrato per la morte di suo fratello Omar, chissà cosa avrà pensato oggi alla notizia giunta dall’Italia? Avrà ripensato a quando nel ’73 e nel ’74 andava a cercare suo fratello “desaparecido” su nel nord del Cile dove viveva e lavorava lui, magari in quel lager che i militari avevano fatto a Pisahua. Ma a Pisahua e in quelle salnitreras per detenuti Omar non c’era…
Hugo non ti ha visto piangere oggi in aula, dopo quella sconcertante sentenza, abbracciata a tua madre Fresia. Meglio così. Eravate lì in aula in attesa di qualcos’altro, vicino a quell’ometto piccolo piccolo che durante tutto i processo con i suoi verbosi interventi (da povero leguleio li ha definiti il Procuratore Capaldo) ha cercato solo piccole scappatoie, senza mai dire nulla su tutti quegli orrori riferiti in aula dai testimoni che in tanti momenti hanno puntato il dito contro lui, senza paura, quasi un’ovvietà. E chi altro?
Il paradosso è tutto lì: per mesi e mesi – questo processo è iniziato nell’ottobre del 2009 – nell’aula è stato ricostruito il fosco e macabro affresco delle torture e delle violenze perpetrate nel Cile di Pinochet, a Temuco, cittadina a 600 chilometri a sud di Santiago.
Decine di testimoni, perlopiù povera gente, venuti con fatica da lontano superando monti e oceano per ricordare cosa succedeva a Temuco sotto il tallone dei militari e dei golpisti come Podlech. Persone scampate al peggio, insidiate nei loro ricordi e incubi dalle domande stridule dei difensori, donne e uomini coraggiosi e fermi che a volte poi tornati a casa hanno scoperto (come è capitato al contadino mapuche Mario Carril Huenuman) di essere stati messi sotto tiro dalla procura locale su istanza del figlio dell’accusato in un’indagine addirittura di falsificazione.
Non è bastato il loro racconto, certo nessuno ha scattato foto quella notte del 4 ottobre del 1973 quando Venturelli è stato “rilasciato” dal carcere per scomparire nel nulla, nessuno è stato testimone oculare di quell’omicidio…
Però quelle testimonianze sono bastate a mettere nei guai i testimoni, a far sentire in Cile sul loro collo il fiato del potere. Indagati. Così vanno le cose ancora laggiù: ma perché meravigliarsi, il presidente Piñera è venuto poco tempo fa in visita in Italia e in un’intervista al Corriere rilasciata alla vigilia si è premurato di dire che Pinochet era certo condannabile per i diritti umani, ma che aveva certamente modernizzato il Cile…
Cara Pacita, mi è dispiaciuto non essere in aula oggi a causa di una banale indisposizione. Ricordo la prima volta che ci sono entrato parecchi mesi fa, non c’era praticamente pubblico, i cronisti apparivano totalmente disinteressati, quel processo che parlava del Cile sembrava così lontano e ininfluente.
Il Cile, qualcosa che è difficile dimenticare invece. Mi hai raccontato la tua vita, appena si è potuto è stata riferita a piccole platee ma pur sempre a qualcuno, piccole mobilitazioni fatte per cercare di fare uscire dall’ombra la tua piccola grande battaglia di ragazza rimasta orfana del padre all’età di tre anni. Così è stato riferito il vostro arrivo, tu e tua madre, nell’Italia degli anni ’70, la scelta di vivere a Palermo, l’essere di lì a poco oggetto di ben due bombe che qualche scagnozzo dei golpisti è corso a piazzare accanto alla porta di casa di una vedova e di una bimbetta, la richiesta al capo mafioso di zona che a mamma risponde “politica è”, la fuga di nuovo verso un altro posto, infine Bologna dove vivi da allora.
E poi dopo tanti anni, quando ormai eri trentenne, la possibilità di tornare per un po’ in Cile, ritrovare un pezzo della tua famiglia ma anche un paese irrisolto e in mano ancora a quella gentaglia lì. Se non altro l’hai verificato il giorno in cui a Temuco fu ritrovata una fossa comune e nella notte poi qualcuno fece scomparire di nuovo quei poveri corpi.
Per quasi due anni hai fatto la spola tra Bologna e Roma, cercando di essere sempre presente alle udienze, collaborando con la Procura, scrivendo perfino una lettera aperta al Papa. L’hai consegnata – ci siamo andati insieme – a un addetto della Sala stampa di via della Conciliazione, perché la inoltrasse a Padre Federico Lombardi e da lui al Papa.
Era successo che in Cile il cardinale Errazuriz di Santiago avesse sollevato l’idea di un indulto per i detenuti allargato anche a chi ha commesso crimini di lesa umanità. E questo era un po’ troppo. Ma è stata l’aula il tuo vero impegno a volte con cadenze molto ravvicinate, un posto in cui stare come ha fatto spesso tua madre Fresia con la foto di Omar attaccata al collo del vestito (cosa che ha fatto scalpitare il solerte difensore dell’accusato, inutilmente però). In aula arrivavi con Alessandra, con Paolo, trovavi Leonor, Aliosha, Felipe, gli avvocati Marcello Gentili e Giancarlo Maniga (e qualche volta anche Marta Vignola e Nicola Brigida ) che hanno sempre pagato di tasca propria questo patrocinio eccezionale. Fuori hai conosciuto la inaspettata solidarietà di persone come Faris Khan, distanti dalla tua storia e così invece partecipi e solidali. E tu stessa non ti sei mai tirata indietro, sei venuta alla serata che abbiano fatto poco tempo all’Alpheus per Mauro Rostagno…
Se scrivo anche di questi aspetti è per ricordarlo a chi non lo sa, per dire in quali condizioni si è tenuto questo processo che ha segnato oggi un clamoroso autogol.
Che senso ha questo verdetto, ti sei chiesta oggi. Non lo capisco, mi hai ripetuto più volte. Un paradosso, è vero. Più è stato grande l’affresco delle mostruosità denunciate su quei mesi a Temuco tra il carcere e la caserma Tucapel, più appare inafferrabile la responsabilità penale individuale? Lasciamo perdere la battaglia di retroguardia fatta da Podlech, non ero io in quel momento il Fiscal, il procuratore militare, lo sono diventato più tardi nel ’74. C’è un documento della Corte d’Appello, targato 17 settembre, che dimostra il contrario.
E poi ecco tutti questi ex torturati che lo ritraggono, testimonianza dopo testimonianza, lì di fronte a loro laceri malmenati e perfino nudi, lui in divisa, a volte alla macchina da scrivere, sprezzante, il fiscal Podlech. Lo stesso che liquida mogli o madri disperate con frasi orribili in cui è negato perfino il diritto alla sepoltura dei morti.
Non è bastato tutto ciò, allora forse è inutile fare processi così? Forse la Corte non si è resa conto che il garantismo per un imputato come Podlech non è affatto esteso ai suoi accusatori, soprattutto a chi è ora tornato in Cile dove su questo processo si è arrivati a scrivere in un’intervista alla moglie di Podlech che suo marito è stato torturato in Italia. Certo, questo argomento (la tutela dei testi) può apparire extragiudiziale, ma lo è fino a un certo punto: le parti di un processo, in particolare i testimoni, dovrebbero essere sempre garantite dalla giustizia. O no? Altrimenti chi varcherà monti e mari in futuro?
Cara Pacita, sei tornata stasera stessa a casa tua, rifacendoti indietro centinaia di chilometri immagino più faticosi che mai. Torni al tuo lavoro, ai tuoi affetti, alla tua città. Non sentirti sconfitta, non siamo sconfitti, tuo padre non è morto invano, peccato non poterlo sentire più mentre suona l’accordéon, pensa stanotte ai racconti di tuo zio Hugo e di tanti altri amici venuti da lontano. Raccontano di un mondo in cui c’era chi stava dalla parte del giusto e chi no. Ciao,
Paolo Brogi
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