Un libro per sapere che cos’è il lavoro dei maestri di strada. Un libro messo insieme da uno di loro, Cesare Moreno, per far capire il lavoro di un altro, Carla Melazzini, che era anche la sua compagna di vita. Carla è morta due anni fa, lo Stato riconoscente le ha assegnato una pensione di 263 euro. Possibile? Possibile. Carla era stata indisciplinata. Però, pensione a parte, ecco che cosa va ricordato del suo modo di essere. Lo fa Cesare con questo breve scritto. Il libro s’intitola “Insegnare al principe di Danimarca” (Sellerio). In un post che segue si spiega anche il senso del titolo, poco danese e molto napoletano.
Ecco le parole di Cesare (alla manifestazione dell’Ugi da lui citata c’ero anch’io…):
Carla Melazzini parlava del suo e del nostro lavoro come un viaggio che parte “dal grado zero della parola” dal silenzio e dal deserto dei significati. Il deserto faceva parte del suo mondo interiore e del suo bagaglio di sapienza così come una “rosa del deserto” riportata dal suo viaggio in Palestina faceva parte dell’arredo della nostra casa. Ma anche altri deserti, provocati dalla devastazione umana erano entrati nella sua e nella nostra storia
Domenica Ventitrè aprile 1967, Firenze angolo tra via Cerretani e piazza del Duomo, mentre in piazza le campagnole della polizia fanno carosello spazzolando teste a colpi di manganello, Carla, Fiorella, io, abbiamo cercato scampo sul marciapiedi: Carla sta inchiodata contro il muro, è palesemente impaurita, ma non scappa: quello è il suo posto, non è arrivata li per caso è convinta di quello che fa. Io molto più digiuno di politica ed ideali vorrei scappare, ma voglio anche proteggerla, mi stavo innamorando di lei e ancora non lo sapevo. Mi misi davanti a lei un po’ discosto dal muro e fu così che presi in pieno un colpo di catena da un agente in borghese che mischiato tra i manifestanti picchiava chi sfuggiva alla mietitura dei celerini.
Il manifesto che convocava la manifestazione contro i primi bombardamenti americani sul Vietnam esibiva una simbologia elementare: un teschio che si intrecciava in trasparenza con una bandiera americana e la frase di Tacito: Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato pace.
Anni dopo ho rivisto quell’espressione quando usciva per andare a suola e ancora di più quando andava ad aprire la sede di Chance prima e degli OFIS (Obbligo Formativo Integrato Sperimentale) poi.
C’era insieme l’angoscia della giornata difficile che l’aspettava, il dovere, la determinazione delle proprie convinzioni, uno sguardo amoroso, il senso di un’impresa importante ed infine la consapevolezza di dover pagare un prezzo, che la verità stava nel prezzo che pagavi.
Ne abbiamo parlato più volte. Su certe questioni abbiamo dovuto virare di 180 gradi e non c’è stata esitazione perché niente di quello in cui credeva rispondeva al bisogno di sentirsi protetta da una ideologia, tutto invece era il frutto di conquiste personali pagate a caro prezzo. Tre anni più tardi era incaricata a tempo determinato in un istituto tecnico di Pontedera, scioperò insieme agli studenti, da sola, e perse il posto. Rifarà il concorso quasi venti anni dopo, e questo comporta che del suo lavoro è restata una pensione di 263 euro. E vent’anni dopo esattamente per gli stessi motivi per cui aveva scioperato da sola insieme agli studenti fece la ‘crumira’ durante lo sciopero degli scrutini. Un simile capovolgimento apparente di posizione era possibile solo a una persona che s’era pagata con il suo essere la libertà di pensiero e d’azione. Dunque ognuna delle frasi che compongono il libro ha un peso, è stata pagata con la moneta contante di una vita piena di necessari compromessi ma liberamente determinata.
Così per quasi vent’anni ha indagato sull’universo psichico dei giovani della periferia, da quelli molto emarginati dalla società e molto interni al sistema – nome indigeno per camorra – a quelli che stanno sul confine, a quelli che stanno uscendo. E riesce a far vedere quale intrico complesso di emozioni, paure, desideri, vantaggi, chiusure, ci sia nei sotterranei della città e della psiche. E come questo intrico può essere sciolto solo con pazienza e con la parola. Riuscire a dire la paura è la prima e più difficile azione di liberazione, richiede di misurarsi con il dolore in modo non letterario, attraverso la presenza ed attraverso l’accettazione della necessaria impotenza di fronte a forze sovrastanti.
La grande frana della Valtellina si è incaricata di stabilire un legame tellurico tra Napoli e Sondrio, tra il Vesuvio e l’Adda, tra la vita e la morte, tra il più solo dei poeti – come definisce Leopardi – e la folla chiassosa dei bassifondi di Napoli. L’onnipotenza pedagogica fieramente avversata (anche contro di me che per poter progettare devo necessariamente credere nella perfettibilità dell’impresa educativa) è solo una variante dell’onnipotenza sulla natura e della pretesa di esorcizzare la morte: l’orgoglio dell’uomo, l’orgoglio di specie, gli fa preferire di considerarsi in colpa per una morte piuttosto che ammettere che questa colpisce senza motivo. E’ per questa convinzione, dall’aver esperito lei stessa, per una vita intera, questo dilemma, che può parlare ai ragazzi colpiti dalla morte del fratello, del padre, dell’amico, e farlo coinvolgendo e sostenendo un gruppo di adulti che con lei sono diventati capaci di affrontare ciò che difficilmente si riesce ad affrontare in un’aula scolastica.
Attraverso la sua persona è passato un intreccio tra i ragazzi che vanno a scuola e vorrebbero sottrarsi alla spirale della violenza, i ragazzi giovanissimi già feriti e compromessi che sono coinvolti nel progetto Chance. Vediamo la stessa realtà da molti punti di vista, ma con lo stesso sguardo che in modo disincantato ed accogliente penetra nei meandri delle coscienze e di se stessa. E questo è prezioso, non c’è una virgola da cui traspaia una dissociazione dalla realtà che osserva, la distanza necessaria per osservare non diventa mai dissociazione, rifiuto di quella realtà come se fosse non umana. Cosicché qui non si parla di Napoli, non si parla di sottoproletari persi nel gorgo di Gomorra, ma si parla del modo in cui ciascuno può elaborare le proprie angosce più profonde ed accettare ciò che una esistenza fragile gli offre.
Il deserto dei significati, come quello di Tacito, non deriva da agenti naturali, ma dall’opera umana. Un mondo adulto che non si assume responsabilità, che non vuole rischiare niente e una scuola che inaridisce i significati – anche e soprattutto quando sembra parlare di attualità – con il loro cieco agire producono una povertà di significati e poi in sovrappiù la rimproverano ai giovani come colpa.
Il deserto dei significati è il più arido dei deserti, produce il più irriducibile disorientamento, induce la visione dei più improbabili miraggi, ma chi sappia abitare questo deserto diventa immediatamente il punto di riferimento, la guida, l’oasi.