Maroni inventa i Cie sul mare: due navi-prigione lager per i tunisini di Lampedusa
venerdì, 23 Settembre, 2011Ora eccoci ai nuovi Cie, ospitati da navi-prigione suol mare. Lo racconta La stampa del 23.9.11:
Due prigioni galleggianti per i tunisini da rimpatriare
Il governo requisisce un molo: allestite una nave merci e una passeggeri
La Stampa, 23-09-2011
LAURA ANELLO
Abdul trascina la sua gamba ferita come una palla al piede, quelle dei , carcerati. Occhi bassi, una smorfia di dolore, imbocca insieme con gli altri il boccaporto dell’«Audacia» trasformato in un dormitorio galleggiante. «Ecco, una nave, finalmente ci portano via, in Italia», sussurra qualcuno con un lampo di speranza negli occhi. «Dove andiamo: a Napoli, a Marsiglia?», si domandano due giovanissimi, infradito e sacchetto azzurro d’ordinanza nelle mani.
Nessuno si azzarda a dire loro che quella nave non partirà mai verso nessuna meta. Che è un altro centro di permanenza, proprio come il Cie di Lampedusa che adesso è in cenere. E questo è sul mare, letteralmente, ancor più di quello che hanno appena lasciato. Già , se il governo si affretta a svuotare al ritmo di dieci voli al giorno l’isola dell’accoglienza diventata di guerriglia, se i riflettori restano puntati lì, silen-ziosamente gli immigrati arrivano qui, al porto di Palermo, dove in gran silenzio sono state allestite due navi per accoglierli a tempo indefinito, visto che Tunisi si ostina a tenere duro sul numero dei rimpatri: non più di cento al giorno.
Si chiamano «Audacia», una nave merci con tre stanzoni dove ne sono stati stipati 150, e la «Moby Fantasy», imbarcazione per passeggeri tutta colori e fumetti sulla fiancata, che ne ospita altri 400. E qui niente associazioni, niente tutela legale, niente operatori umanitari che vigilino sulle condizioni di vita.
Così, è vero che si svuota Lampedusa, ma nessuno dice che soltanto due dei dieci voli al giorno puntano su Tunisi: gli altri arrivano qui a Palermo, nel molo requisito dal Viminale, per quindici giorni tanto per cominciare. Con uno schieramento imponente di forze dell’ordine: per ogni immigrato due poliziotti, tutti con la mascherina sul viso «per precauzione igienica, ha sentito che odore c’è sui pullman?».
Ne arriva uno proprio in quel momento, sono le quattro del pomeriggio, per trasferire i primi cinquanta dalla «Moby», riempita per prima, all’«Audacia». A guidare le operazioni non è un agente qualsiasi, ma Manfredi Borsellino, figlio di Paolo, il giudice ucciso dalla mafia, oggi vicequestore dirigente del commissariato di Cefalù, uno dei tanti mobilitati da tutta Italia per fronteggiare l’emergenza Lampedusa. Modi gentili, niente esibizione muscolari, professionalità e rispetto. E accanto c’è un altro «sbirro» di razza: Silvio Bozzi, siciliano dirigente a Fano, criminologo, consulente dei principali scrittori di noir italiani: da Lucarelli a Camilleri, autore e coprotagonista di tante trasmissioni  tv. Chissà   quanto materiale avrà adesso: «Questi giorni a Lampedusa sono stati un inferno», confessa.
Ma le misure di sicurezza sono straordinarie. Stipati in pullman per fare pochi metri, guardati a vista come boss della mafia. Prima scendono dieci poliziotti, manganelli a portata di mano, poi dieci immigrati sudati, scarmigliati, le facce peste. E ancora dieci e dieci, fino alla fine. Puzza di sudore, di  disperazione, di notti passate all’addiaccio. Somigliano più a reduci che a potenziali ribelli.’«Sono arrivati da Lampedusa stremati», dicono gli agenti. Molti hanno ancora addosso la tuta fornita dal centro di accoglienza al momento dello sbarco dopo la traversata della speranza. Nessuno ha le scarpe comprese nel kit: «forse le scambiavano con altri generi di prima necessità laggiù a contrada Imbriacola, nessuno ce le aveva più dopo poche ore dalla consegna».
Dalla «Moby» si vede una maglietta che sventola sulla tolda, poi improvvisamente sparisce. Qui, al passaggio blindato,  ci sono soltanto sussurri e sguardi che invocano una speranza. «Sa dove ci portano?», chiede veloce un giovane pesto, bermuda e maglia lurida, prima di essere intruppato verso due stanzoni dove dormiranno su poltrone reclinabili, due bagni ogni cinquanta persone, niente docce, la mensa per mangiare, «la nostra stessa mensa — dice un agente — ci alterneremo solo per gli orari». Le procedure di identificazione? «Qui non se ne fanno, le avevano già completate a Lampedusa, questi hanno tutti i documenti a posto».
Un’ora prima, alle tre, due pullman erano partiti alla volta dell’aeroporto di Punta Raisi, con i cento a bordo attesi da Tunisi. Volo proveniente da Fiumicino, decollato poi alle sei da una delle quattro piazzole requisite dal ministero degli Interni, con la società di gestione dello scalo —la Gesap — a fare i salti mortali per tenere distinto il percorso dei turisti da quello degli immigrati, i viaggiatori liberi e quelli per forza, condannati all’invisibilità . Si arriva tanto e si parte poco. Ieri sono sbarcati qui da Lampedusa otto C130, a bordo niente sedili ma solo panche: un tunisino in mezzo, due poliziotti da una parte e dall’altra. Poi il pulman li ha presi a bordo pista, li ha depositati in porto, sulle navi che sembrano pronte a partire e che invece sono un’altra tappa di un infinito gioco dell’oca dove si finisce sempre nella casella sbagliata. Quella del ritorno a casa, il punto di partenza.
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