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Dove sei, Matteo? Storia del capo della mafia e del cronista di una radio siciliana

Un giornalista di una radio siciliana lo saluta ogni mattino. A modo suo.  Da Rmc 101 il cronista Giacomo di Girolamo (nella foto) chiede: “Dove sei, Matteo?”.

E’ caccia al capo della mafia. Sembra paradossale ma Matteo Messina Denaro, figlio di Ciccio, è nascosto in un fazzoletto di terra che è la provincia di Trapani. Parliamo di Mazara, Alcamo, Castelvetrano e il capoluogo stesso Trapani, quell’angolo occidentale di Sicilia in cui è stato ammazzato Mauro Rostagno e altre vite sono state stroncate dalla mafia.

Com’è possibile che Matteo Messina Denaro sfugga a ogni ricerca? In passato lo hanno dato anche come protetto da una struttura religiosa. Vero o falso che sia, sembra impossibile che questo feroce sicario – leggete il bel libro di Fabrizio Feo per Rubbettino o quello di Di Girolamo per gli Editori Riuniti – rimanga a piede libero.

Repubblica oggi gli dedica spazio, parla della caccia che lo starebbe accerchiando, mostra in particolare poi questo giovane cronista che lo sfida dalla sua radio, Rmc101 e che ha le sue idee in materia di mafia. Segnalo l’intervista che Flavio Bini gli ha fatto, eccola qua:

L’intervista di Flavio Bini

Il cronista di frontiera
che sfida il capo dei capi

Giacomo di Girolamo, giornalista di 34 anni, conduce una trasmissione che si rivolge ogni giorno al boss latitante. “Ma io non la intendo come una sfida, raccontare Messina Denaro è un modo per raccontare il mio territorio”. “Le minacce? Non fanno paura. Sono parte del mestiere, le metto in conto. Pesa di più l’intimidazione delle querele, che sottraggono soldi e tempo al lavoro”. “Lui verrà arrestato, ma come è successo per Riina e Provenzano: quando qualcuno deciderà che il boss non serve più”

Ogni giorno, da tre anni, a Matteo Messina Denaro fischiano le orecchie per almeno tre minuti. Dai microfoni di una piccola radio di provincia, Rmc101, un giovane cronista pone quotidianamente la stessa domanda: “Dove sei, Matteo?”. Proprio così, come a un amico. Dando del tu al capo della più importante organizzazione criminale del mondo in una seguitissima trasmissione che ogni giorno ripercorre le vicende del boss latitante. “E’ un conterraneo, probabilmente attraversiamo le stesse strade ogni giorno, trattarlo come se fosse una figura inafferrabile contribuisce a alimentare un mito che invece io voglio in tutti i modi demolire”, spiega Giacomo Di Girolamo, trentaquattro anni, giornalista da venti. “Ho cominciato da piccolo, prendevo il motorino alle sei e mezzo del mattino, lavoravo in radio prima di andare a scuola e tornavo nel pomeriggio. Ora scrive per quotidiani e periodici nazionali e dirige il portale Marsala.it e la radio Rmc101, la più importante della provincia di Trapani, un folto seguito tra i giovani, mirata soprattutto sul racconto del fenomeno mafioso. Nel 2010 ha pubblicato per Editori Riunti il libro Matteo Messina Denaro: l’invisibile.

Cosa ci racconta la storia di Messina Denaro?
“La sua storia è anche quella di una trasformazione profonda del fenomeno mafioso. La sua è una figura del tutto atipica, con elementi di assoluta modernità che si sono riflessi anche nella natura dell’organizzazione cirminale dopo la cattura di Riina. Per dirne una, Matteo Messina Denaro è ateo, un carattere di assoluta discontinuità con i boss precedenti. Ma è anche un uomo colto, che ogni anno arricchiva il necrologio di suo padre con citazioni letterarie che spaziavano dall’Ecclesiaste a Lucrezio. Non è un caso che da quando è salito al vertice della “cupola”, anche l’organizzazione è cambiata. E’ subentrato l’interesse per le grandi distribuzioni, si è abbandonato il traffico della droga come fonte principale di guadagno prestando una maggiore attenzione agli appalti, al business dei rifiuti”.

Il titolo della trasmissione, “Dove sei Matteo?”, suona come un affronto.
“E’ invece l’esatto contrario di come intendo io la professione. Ho detto e lo ripeto, non sopporto il giornalismo gridato, che trasforma i cronisti in eroi. Il giornalismo “resistente”, come lo chiamo io, crea tanti alibi, fa pensare che l’arma del giornalismo la detengano pochi coraggiosi. Credo invece nel giornalismo “residente”, quello di chi semplicemente racconta quello che ha accanto. E io, accanto, ho Matteo Messina Denaro. Parlare della sua latitanza è parlare anche del mio territorio. Ed è questo il punto centrale, è l’humus dove la mafia cresce e si fortifica. Questo è quello che faccio, non racconto la storia di un uomo, ma quella di un territorio”.

Come si traducono, in concreto, le difficoltà di affrontare ogni giorno e a viso aperto il fenomeno mafioso? Qualche settimana fa, per la prima volta, hai denunciato con una lettera aperta le condizioni di intimidazione in cui ti trovi a lavorare.
“Ho fatto per tanti anni questo mestiere senza rendere pubbliche le difficoltà che dovevo affrontare. Le ho sempre considerate parte integrante del mio lavoro, come il mal di schiena per un manovale. Qualcosa da mettere in conto. Ma le minacce e le querele diventano un problema nel momento in cui ti impediscono di fare il tuo lavoro”.

Faccia un esempio.
“Le querele costano. Ci vogliono soldi per pagare un avvocato che ti assista, rubano tempo e fatica. Sottraggono ore al lavoro, perché ti costringono a subire lunghi interrogatori dei carabinieri per sentirsi fare sempre le solite tre domande. E la terza è quasi sempre: “Vuole un caffè?””.

E poi?

“E poi è dura anche psicologicamente. Ogni volta che arriva una raccomandata, è una brutta sensazione. Sono sicuro di quello che scrivo, ma – come chiunque vuole fare bene questo mestiere e ha un minimo di scrupolo – la domanda me la pongo sempre: “Se avessi scritto una cazzata?”. Così per preparare la memoria difensiva tocca recuperare documenti, riordinare le idee su cose scritte anche molti anni prima. Sono ore perse, che devo sottrarre al mio lavoro di cronista”.

Nella sua lettera scrive che questo clima di intimidazione “avvelena il sangue, te lo fa diventare amaro. E ti fa diventare strabico, perché un occhio lo devi rivolgere alle minacce che ti arrivano dall’alto, ai potentì dalla querela facile (…), l’altro deve guardare in basso, a quello che avviene per strada”.
“Lo ripeto, le minacce fanno parte di questo lavoro. E’ il tempo sottratto al lavoro e trascorso nelle aule di giustizia il vero problema. Il resto lo affronto e non fa paura. Ti scrivono messaggi, rubano la bicicletta, rigano la macchina, fanno telefonate anonime. Dicono che sei “un giornalista solo con il suo computer”. Tutte cose che ho ampiamente messo in conto. “Una volta mi hanno scritto per mail: “Giornalista, sei il primo della lista”. Gli ho risposto: “Quale lista?””.

Davvero si riesce a non aver paura?
“L’organizzazione mafiosa non è stupida. Non c’è interesse a fare del male a una persona, sanno che farebbero di te un eroe. L’unica paura che ho è di fare male il mio lavoro, che è a rischio se mi tocca passare otto ore al giorno per parlare delle mie vicende”.

Essere un “cronista di frontiera” è un limite o un vantaggio per svolgere il tuo lavoro? Sarebbe più facile scrivere di mafia per una grande testata nazionale, con un occhio più distaccato e “protetto”?
“Credo che assolviamo a due compiti diversi. I grandi giornali sono molto attenti ai singoli fatti, agli arresti, ma non al territorio e spesso perdono di vista l’evoluzione del fenomeno mafioso”.

Un esempio?
“La famosa questione della trattativa tra mafia e Stato di cui si parla moltissimo da due anni. Si tratta di un equivoco clamoroso, che rischia di allontanare la comprensione della realtà. E’ nella natura del fenomeno mafioso tenere un contatto con le istituzioni. Che sia a livello di dialogo con la politica o attraverso la soffiata di qualcuno per mantenere la propria latitanza, questo “dialogo” non viene mai meno. Semmai c’è un’altra trattativa, molto più importante”.

Quale?
“Il governo non manca mai di ricordarci il numero di latitanti che vengono settimanalmente arrestati. Ma questo tipo di approccio, anche a livello giornalistico, è incompleto. La guerra che si sta facendo alla mafia è di tipo militare: si colpisono i vertici della macchina ma si trascurano completamente i reati contro la pubblica amministrazione (riciclaggio, truffa eccetera). Anche così si mantiene in vita un’altra trattativa, quella che favorisce il ricambio generazionale della mafia, che prospera proprio in questo tipo di reati. E Matteo Messina Denaro non è fuori da questa partita, essendo il vertice della “gerarchia militare”. Anche lui verrà preso e arrestato. E come è accaduto per i principali boss della mafia, accadrà solo dopo che qualcuno deciderà che il boss non serve più”.

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