Informazioni che faticano a trovare spazio

L’Italia di Malegno e degli altri dieci comuni del bresciano: ospitalità, corsi di lingua e lavori utili per gli immigrati

Una storia bresciana, della Valcamonica: il comune di Malegno (nella foto) che adotta gli immigrati e insegna loro la lingua italiana. Con Malegno altri dieci comuni: Edolo, Sellero, Capo di Ponte, Cerveno, Breno. Berzo Inferiore, Esine, Artogne, Pian Camuno e Bisogne. E’ l’altra Italia diversa dalla Lega, ecco la provincia di Brescia che mostra un volto diverso. La Lega, tra l’altro, proprio in provincia di Brescia (e anche nel bergamasco) aveva perso alle ultime elezioni un po’ di piccoli comuni, un fenomeno poco rilevato dai media ma che la dice lunga sul mal di pancia del leghismo oggi. Ecco l’articolo del Manifesto dell’11.10.2011 su Malegno e dintorni. Viva l’Italia che si ribella alla demagogia e alla xenofobia.

IL MANIFESTO, 11 OTTOBRE 2011

Immigrazione. L’esempio del piccolo comune di Malegno che accoglie una parte dei rifugiati insegnando la lingua. E la Lega protesta dimostrando di aver fallito come forza di governo

Italiani, brava gente: l’accoglienza possibile

di Ilenia Sina

Sabato 25 giugno. Gian Pietro Cesari, sindaco di Artogne viene informato dell’arrivo da Manduria (Taranto) di 99 profughi richiedenti asilo nel suo co­mune solo la sera precedente con una te­lefonata della Prefettura di Brescia. «Non avevo voce in capitolo, potevo solo pren­dere atto che sarebbero arrivati» spiega. Destinazione: Le Baite di Montecampione, il residence che sorge solitario in mezzo ai pascoli e alle piste da sci, balzato agli onori della cronaca anche fuori dai confini nazionali. Il sindaco ricorda come era stata garantita «la presenza della Protezione Civile, della Croce Rossa e delle associa­zioni del terzo settore che avrebbero accolto cento ragazzi di varie nazionalità, per di più con quella storia alle spalle». E invece, quando dall’alto dei 1800 metri dove si trovano Le Baite avvista i due pul­man inerpicarsi per i tornanti che separano la struttura ricettiva dal primo centro abitato, preceduti solo da una volante della polizia, «ho capito che sarebbero stati abbandonati li».

Abbandonati da tutti. Niente Protezione Civile. Niente terzo settore. Nemmeno la Croce Rossa (due ad­detti per un’ispezione) accettò di gestire un presidio medico permanente a quella quota. «Se la società civile non si fosse au­torganizzata per aiutarli, la situazione sa­rebbe diventata esplosiva» denuncia Carlo Cominelli, presidente della cooperativa sociale Kpax, ente gestore del Sistema di protezione richiedenti asilo rifugiati (Sprar) di Breno. Fin dai primi giorni «senza che nes­suno ce lo avesse chiesto e a titolo gratui­to» ha curato le sorti dei rifugiati ospitati a Montecampione. E così, quel 25 giugno, i 99 profughi (nei giorni seguenti diventati 114), scendono dal pullman in pantalonci­ni e ciabatte, senza nemmeno sapere in quale parte d’Italia si trovino. Roberto e Valentina della rete SuaMontecampione, hanno provveduto a fornire una prima ass­stenza raccogliendo a fondo valle gli indu­menti necessari per vivere a quelle tempe­rature. Sono i primi “civili” ad aver messo piede a Le Baite. «Erano stati abbandonati, senza nemmeno una giacca con cui coprir­si, in quello che fin dal primo momento ci è sembrato un Cie senza sbarre e senza po­lizia». I profughi sono stati lasciati lì senza la possibilità di telefonare o di avere dei ra­soi personali, senza nessuna assistenza le­gale, psicologica o sanitaria. Più di tre mesi confinati a 1800 mt. E se dal 4 ottobre i profughi hanno iniziato a scendere a piccoli gruppi è solo grazie al “Progetto di accoglienza diffusa” proposto alla prefettura di Brescia dalla cooperativa Kpax, che lo ha elaborato. È stato firmato da undici comuni chiamati a raccolta dalla Comunità Montana, dalla Asl locale (impegnata in un’assistenza sanitaria bisettimanale), dalla Cgil, dalla Cisl‑Anolf (Associazione nazionale contro le frontiere) e da altri soggetti del mondo del terzo settore. Undici comuni, Edolo, Sellero, Capo di Ponte, Cerveno, Breno. Malegno, Berzo Inferiore, Esine, Artogne, Pian Camuno e Pisogne, per sessanta posti totali. La speranza è trovare altre disponibilità anche nella bassa bresciana in modo da svuotare entro il 30 ottobre sia Le Baite di Montecampione che il villaggio “Miò” di Val Palot a Pisogne, una “Montecampione” dalle dimensioni minori.

La buona rete di 11 comuni. Capofila di questo progetto il comune di Malegno, a pochi chilometri da Montecampione, sempre in Valcamonica, che per primo ha sperimentato il successo del­la micro accoglienza. A Malegno, di fron­te al flusso di profughi in fuga dalla guer­ra in Libia, il sindaco Alessandro Domenighini ha deciso «di fare la propria parte». Qui, da anni, è attiva una rete di solidarietà attenta alla tematica dell’integrazione tra i popoli e dell’accoglienza dei profu­ghi. «Così non ho dovuto far altro che co­tattare la cooperativa K‑pax, dichiarare la nostra disponibilità ad accogliere qual­che profugo e attivare un minimo di rete di solidarietà che permettesse l’integrazio­ne di queste persone». Risultato: dall’ini­io di giugno un senegalese e quattro ghanesi vivono in un appartamento a Malegno, seguono quotidianamente dei corsi di italiano e tre di loro collaborano al mantenimento dei beni pubblici grazie a un corso di avviamento al lavoro gestito dall’ufficio tecnico comunale. «Uno dei pochi casi, oggi, in cui possiamo dire che il lavoro nobilita» racconta il sindaco di Malegno. Incontriamo Adam, Abib, Ahmed, Ibraim, Rachid, alcuni nemmeno venten­ni, al mattino mentre ripetono gli articoli indeterminativi con Orsolina, una delle in­segnanti di italiano volontarie. Adam sa parlare meglio l’italiano e si lascia distrar­re dall’entrata di un’estranea accompa­gnata dal «sindaco Alex», che viene saluta­to con affetto. Ibraim, che non è mai an­dato a scuola, non stacca gli occhi dal li­bro e continua a correggere l’esercizio. «Non siamo scappati in Italia per cercare lavoro ma per salvarci la vita» ci tengono a specificare.

Le loro storie sono simili a quelle di tut­ti gli altri rifugiati. Tutti fuggiti dalla guer­ra. Prima dai propri paesi d’origine dove spesso hanno lasciato o perso fratelli, genitori, mogli, poi dalla Libia dove aveva­no trovato lavoro. E ancora la «terribile» traversata e i compagni di viaggio «morti in mare su quelle navi vecchie in cui pen­savi che saresti affondato da un momen­to all’altro». Ci allontaniamo da Malegno per proseguire in direzione fondo valle da cui si inerpica la strada per Montecampione. Una volta a 1800 metri il fred­do pungente preannuncia un inverno in­sostenibile. «Perfino le mucche che nei mesi estivi ci hanno fatto compagnia a metà settembre sono state portate a val­le dai pastori. Noi invece siamo rimasti qui» scherzano, ma non troppo, i richie­denti asilo.

In tutto a Montecampione sono rima­ste circa ottanta persone, e il numero è de­stinato a calare. Il giorno in cui il manife­sto li ha raggiunti, fuori c’è troppo vento e fa troppo freddo per qualsiasi attività all’aperto. Così, mentre restano in attesa di conoscere la risposta della commissione preposta a valutare le loro richieste d’asi­lo, cercano di riempire le giornate come possono. Qualcuno gioca a carte o a da­ma nella grande hall dell’albergo. Il bancone del bar, chiuso, e i cartelloni a forma di fiore che indicano la porta di un baby­club rendono ancora più surreale il clima. In molti rimangono nelle camere o vaga­no per i corridoi. Vengono dal Mali, dalla Nigeria, dal Ghana, dal Senegal, dal Burki­na Faso. In tutto tredici nazionalità. Tanti parlano il francese, altri l’inglese.

Ma c’è anche un numero consistente di ragazzi che non ha mai frequentato la scuola ed è analfabeta. Aspettano ansiosi di essere spostati. Gli oltre tre mesi sulla cima delle montagne camune non sono passati in­denni, in una situazione psicologica già provata dalle difficili storie personali. «Li­beri ma costretti dall’ambiente a uno spa­zio limitato». Carlo Cominelli, che ha ge­stito i primi trasferimenti, racconta di «aver riscontrato una sorta di “sindrome del profugo” che una volta sceso a valle fa­tica a recuperare autonomia e si sente di­sorientato». Carlo Cominelli non è d’ac­cordo con l’assessore della regione Lombardia alla protezione civile, Romano La Russa, che ha parlato di «standard di acco­glienza adeguati» offerti dalle convenzio­ni con gli alberghi. Il caso Montecampio­ne «si basa sull’idea che la politica possa affidare ai privati l’accoglienza scarican­do su quest’ultimi responsabilità che la politica stessa ha deciso di non assumer­si» commenta Carlo Cominelli. Esauriti i posti dei centri che tradizionalmente ac­colgono i profughi, come lo Sprar di Breno (con la coop. K‑Pax ed il centro acco­glienza Casa Giona della Parrocchia di Breno) e la Caritas, sono stati gli alberga­tori privati, rappresentati da Federalber­ghi, gli interlocutori principali del tavolo preposto ad affrontare l’accoglienza.

La “sensibilità” di Federalberghi. Il compenso per la «sensibilità sociale» di questi albergatori va dai 40 ai 47 euro al giorno per ogni rifugiato accolto. Il tutto per vitto, alloggio e «qualche servizio». Tanto per dare l’idea il gestore del residen­ce Le Baite di Montecampione ha preso 42 euro a migrante che moltiplicati per 114 al giorno per oltre tre mesi costituisco­no un vero e proprio business. «Nella fase iniziale la questione è stata affrontata solo da un punto di vista tecnico mentre è mancata la volontà politica che invitasse tutti gli amministratori a un senso di responsabilità» commenta Oscar Panigada, sindaco di Pisogne, anche lui avvertito so­lo la sera prima dell’arrivo di trenta profu­ghi nel suo comune. «Siamo stati sorpassati» protesta il sindaco di Artogne, «inoltre i profughi dovevano essere distribuiti omogeneamente sul territorio nazionale». In­vece in provincia di Brescia su 375, ne sono stati “portati” in Valcamonica ben 258. In città e nella bassa bresciana è passata la linea della Lega Nord del “Noi non li vo­gliamo” e quasi tutti sono finiti sui monti. «Lontani dagli occhi, lontano dal cuore» commenta il sindaco di Artogne.

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