Riprendo questo contributo di Pier Luigi Sullo dal sito ”democraziakmzero”, destinato al Manifesto di cui Sullo è stato un quadro. Sostiene che i neoministri rispondono a quel “board” formato all’estero e sostanzialmente transnazionale, con una forte venatura cattolica e molto spirito bancarioo dentro. Prof sì, ma della Cattolica e della Luiss in prevalenza. Che dire? C’è del vero, ma c’è anche dell’esagerazione. Nel senso che non è proprio così. Innanzi tutto il primo elemento chiaro, da cui non si può prescindere, è cosa è stato messo dietro l’angolo. Ricordate Berlusconi e il suo clan (Gelmini, La Russa, Brunetta, Tremonti ecc ecc)?
Il secondo elemento è che il governo sarà pure tecnocratico ma dovrà pure ascoltare anche ciò che il paese dice. Prendiamo poi le misure economiche annunciate. Che impressione fanno? Il programma prevede il ritorno dell’ Ici (si può dargli torto?), tasse sugli immobili (vediamo come), perequazione delle pensioni (idem), tagli alla politica (vediamo che nn sia il solito topolino dalla montagna…). Insomma un quadro mi pare al momento interlocutorio. Sui costi della politica Monti promette lifting, aiutiamolo allora a individuare cosa. Certo, molti sono gli interrogativi che la lista dei ministri ha subito fatto nascere – anche in questo blog – e dunque staremo a vedere come evolve il tutto. Ma atytenzione ai titoli ad effetto come questo di Suillo che comunque per amore della discussione vi propongo: Il Governo dell’1%
Scrive dunque Sullo: Quando ho sentito Monti leggere la lista dei ministri, e dopo aver letto i profili dei neoministri che non conoscevo (e non erano pochi), mi è venuto spontaneo pensare “questo è il governo più reazionario che la Repubblica abbia mai avuto”. Mi sono subito redarguito da solo. Perché Monti, e Napolitano, hanno fatto il passo oltre la palude in cui eravamo a causa a Berlusconi (intendo la palude morale, estetica, politica, della corruzione). E perché l’aggettivo “reazionario” è a sua volta reazionario: sembra alludere a tempi trapassati in cui il “progresso” era certo, il destino era il socialismo, e chi vi si opponeva era appunto la “reazione”, ossia il tentativo di spingere all’indietro la storia. Non è un caso se questa parola sia caduta in disuso da tanto tempo.
Però. Fatte le debite premesse sul fatto che avere nostalgia del Puzzone sarebbe indice di disagio mentale, il modo in cui Monti è stato incaricato da Napolitano, il modo in cui il governo della destra è stato disarcionato, il coro apparente (perché forzoso, in molti casi) di giubilo attorno al nuovo governo, la sua stessa composizione, sono tutti segnali che qualcosa di profondo si è rotto, nella democrazia italiana. E in modo probabilmente irreversibile. Democrazia? Bene, sì, lo spettacolo della democrazia, l’apparenza della sovranità, l’esercizio fortemente truccato del voto (con quella legge elettorale, poi), la presunta dialettica tra governo e parlamento (cui la Costituzione antifascista consegna in ultima istanza tutto il potere), insomma l’architettura istituzionale, storica, morale, che era stata tanto lesionata dall’ultimo ventennio che un colpo di speculazione, la fragilità finanziaria, una rete di relazioni e un mondo (e un’Europa) tanto mutati hanno facilmente fatto crollare.
Se si guarda alla lista dei ministri, si vedrà prima di tutto – ed è ovvio – che le “mediazione politica” è totalmente svanita. Il governo di Monti, anche se dovrà chiedere la fiducia al parlamento (che gliela darà per terrore), assomiglia al “board” della Banca centrale europea, o alla direzione di qualunque organismo economico transnazionale: non è stato eletto, è composto da “tecnici” presuntamene neutrali, è intriso di ideologia del mercato. I nuovi ministri appartengono sostanzialmente a tre componenti: ci sono i nomi suggeriti dal Vaticano (scuola, sanità, cultura…); ci sono gli alti burocrati dello Stato (difesa, interno, ambiente…); ci sono i banchieri (lo stesso Monti, lo sviluppo e le infrastrutture…). Alto tasso di partecipazione a istituzioni liberiste e/o cattoliche (la Luiss come l’Università cattolica).
Cosa potrà uscirne, pur nei limiti imposti dal precario accordo tra i partiti? A caldo, le associazioni cattoliche del terzo settore hanno gioito perché il fondatore di Sant’Egidio, Riccardi, è diventato ministro per la cooperazione internazionale e, attenti alle parole, per l’”integrazione”. Questa espressione, integrazione, suggerisce una attitudine sì meno feroce, e razzista, nei confronti dei migranti, ma allude anche a un obiettivo economico: i poveri del Sud vanno aiutati a casa propria (la cooperazione), quelli che sono o arrivano qui vanno integrati (nell’economia, cui sono estremamente necessari).
Forse è in questa insegna del ministero di Riccardi, sicuramente il migliore dei nuovi ministri, la chiave di tutto. Per un verso, saranno i cattolici a governare la “società”, attraverso la cultura, l’istruzione, il welfare, la salute pubblica (e sappiamo che un cattolico, in questi ambiti, è meglio di un qualche berlusconiano incompetente e incattivito, ma sappiamo anche che si pongono problemi di laicità, naturalmente). Per un altro verso, gli alti o altissimi burocrati terranno le posizioni: agli esteri (l’ambasciatore a Washington, guarda caso), alla difesa (un ammiraglio collocato molto in alto nella Nato), all’ambiente (un direttore generale che dovrà gestire l’inesistenza di un ministero che pare Monti volesse accorpare, coerentemente, allo sviluppo economico), all’agricoltura (un altro direttore generale più esperto di comandi europei sul tema che di agricoltura in senso stretto), all’interno (una donna prefetto molto ligia).
Ma il “core business”, per usare il loro linguaggio, è fatto di persone che hanno studiato, insegnato e lavorato nelle università e nelle istituzioni finanziarie anglosassoni (o francesi, in minor misura), e che ricoprono ruolo di management o di compartecipazione in istituzioni bancarie ed economiche: si tratta dello strato superiore di quella che Saskia Sassen definì “classe globale”. E che Occupy Wall Street chiama semplicemente “l’uno per cento”. Persone denazionalizzate, parte attiva della comunità transnazionale degli affari, che più che ai deputati italiani sanno parlare a un’assemblea dell’Aspen Institute o della Trilaterale, a una riunione di esperti economici della Commissione europea o a un seminario di Harvard.
E’ un male, questo? Beh, certo, avere un ministro in grado di parlare perfettamente inglese è meglio che avere un presidente del consiglio che fa figuracce con il suo francese scolastico. E certo questo faciliterà i “mercati”, i quali potranno capire meglio cosa il governo italiano vuole fare. Ma quel che precisamente spinge queste persone è l’idea che l’assetto attuale del capitalismo, ossia la libera circolazione dei capitali sul pianeta e la libera ricerca di maggior profitto nella giungla della finanza globale, è un dato di fatto. E’ il migliore dei mondi possibili. Si tratta solo di correggere le storture che impediscono agli Stati nazionali di marciare a tempo con quella musica. Ad esempio, la pessima abitudine di indebitarsi. Anche se è quel che hanno fatto fin da quando sono nati, gli Stati nazionali, è una caratteristica della loro esistenza, non una malattia. Considerare il debito una patologia significa voler rivoluzionare il mondo, perché obbedisca alle regole dei “mercati”. Che non solo sono in se stesse inumane, perché non ammettono sfumature tra la figura del vincitore e quella del perdente, ma hanno condotto il mondo a una condizione di disastro: ambientale e sociale, democratico e culturale.
In questo sta la qualità reazionaria del governo Monti: arrivati al disastro, invece di cambiare modi e qualità della produzione e dell’economia, senso delle relazioni tra persone e comunità e Stati, questi emissari dell’ideologia dominante vogliono far tornare indietro la storia, a quando la parola “crescita” conteneva in sé anche la parola “benessere”. Ma sanno anche loro che non è così, naturalmente: sono professori. Però insistono, anzi induriscono la loro determinazione. Prendendo il governo direttamente nelle loro mani e, ad esempio, nominando Corrado Passera ministro sia dello sviluppo economico che delle infrastrutture: perché per loro le due cose sono intrecciate. “Sviluppo” non significa maggiore qualità della vita, maggiore ricchezza per tutti, ma la privatizzazione forzata (ovvero l’esatto opposto della staliniana collettivizzazione forzata ma altrettanto violenta) dei beni pubblici, come i servizi locali e l’acqua, e del territorio, da trattare come una piattaforma inerte e informe sulla quale fare scorrere il più rapidamente i flussi delle merci e dei capitali.
Nella famosa “legge di stabilità” votata di corsa dal parlamento si stabilisce che gli enti locali che non si sbrighino a “liberalizzare” i servizi pubblici saranno sostituiti, nella decisione, dai prefetti. Eppure, un referendum, in giugno, disse che la maggioranza degli italiani non vuole queste privatizzazioni, di cui l’acqua e solo l’avanguardia. Come si comporterà il nuovo governo? E scommetto che la prima azione di Passera sarà sulla Val di Susa, per altro appena dichiarata (dalla legge di stabilità votata di corsa dal parlamento) zona militare: e c’è una razionalità ferrea, in questo. Quel tipo di “sviluppo” richiede cose come la Tav e, in una democrazia irregimentata dall’economia, le obiezioni delle comunità locali sono puri ostacoli da domare, come una collina nel posto sbagliato o un fiume un po’ ribelle: basta qualche manganello e molto cemento, a mettere le cose a posto.
Ecco perché ho pensato “reazionario”, ascoltando Monti leggere la lista dei ministri. Spero di sbagliare.
Pierluigi Sullo