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Roma: “eliminati” da ignoti tre sampietrini della memoria, erano stati appena messi accanto al ministero della Giustizia per le tre sorelle Spizzichino

Oltraggio alla memoria delle sorelle Spizzichino, morte nei lager nazisti, e di tutta la Shoà. I tre sampietrini della memoria che erano stati appena messi di fronte alla casa da cui furono deportate, in via Santa Maria in Monticelli 67, sono stati estratti via dal selciato e sostituiti con sampietrini qualunque. Le tre pietre d’inciampo erano state collocate lunedì 10 gennaio da Peter Denmig venuto dalla Germania per partecipare alla posa delle nuove 72 pietre d’inciampo, i sampietrini in ottone lucente con su scritto il nome dei deportati uccisi con l’anno di nascita e di morte. Ad accorgersi questa mattina della scomparsa delle tre pietre è stata la parente delle sorelle Spizzichino, Emma Aboaf,  che ne aveva fatto richiesta presso lo sportello aperto appositamente alla Casa della Memoria.

“Sono rimasta incredula – spiega Emma Aboaf -. Questa mattina le tre pietre non c’erano più. Per ricortdare Grazia, Letizia ed Elvira Spizzichino erano venute da Israele anche le mie sorelle. Ora faremo subito una denuncia…”. Grazia e Letizia sono morte a Bergen Belsen, Elvira appena sedicenne fu uccisa subito al suo arrivo ad Auschwitz. Il luogo dell’oltraggio si trova a poca distanza dal Ministero di Grazia e Giustizia, che è oggetto di un costante presidio della polizia penitenziaria. Un oltraggio, dunque, non solo vile ma ancor più inquietante.

Paolo Brogi

Questo il pezzo che ho messo su corriere.it non appena oggi sono stato avvertito da Emma Aboaf e da Martina Levi Fiorentino. Poi sono andato sul posto e ho constatato la macchia bianca davanti al portone del 67, con i sampietrini appena ricollocati al posto di quelli dorati di Denmig. Ho suonato a vari inquilini, nessuno ha visto nulla. Una signora però ci ha tenuto a dire che il palazzo non era stato “avvertito” dell’iniziativa di posa. Tutto qua. Il Palazzo del Ministero dei Grazia e Giustizia è a cinquanta metri in linea d’aria, dunque francamente appare impossibile che l’operazione di scavo e sostituzione possa essere passata inosservata. E dunque?

Delle povere sorelle Spizzichino ripubblico quanto ha scritto Emma Aboaf nel libro sulle “Donne ebree” di Puppa Garribba. Ecco:

Quella primavera senza fiori nel ’44.
Letizia, Grazia, Rosa, Elvira Spizzichino.

Di Emma Aboaf, tratto da “Donne Ebree” a cura di Pupa Garribba, ed. Com Nuovi Tempi

Questo racconto narra la cattura delle zie, sorelle di mia madre, avvenuta nel maggio del 1944 ed è stato ispirato dal dolore dell’assenza che ha accompagnato la vita di mia madre e la mia infanzia. Fin da quando sono nata mi hanno chiamata Elvira pur avendo rilevato il nome di mia nonna Emma. Al mio Bat-Mitzvà  mi è stato affidato l’anello di Letizia, l’unico oggetto rimasto insieme alla loro macchina da cucire, che sta per partire alla volta di Yad Vashem .

Mia madre non è mai arrivata ad Auschwitz ma mi ha scelto come “Candela della memoria”. Dal 2001, anno in cui è stata istituita la Giornata della Memoria, sono testimone di seconda generazione e porto nelle scuole il ricordo delle zie e di mio nonno anche lui ucciso dopo essere arrivato a Buchenwald, dopo Auschwitz.
Le mie sorelle più giovani si chiamano Grazia e Letizia. Mia madre ha cercato di restituire la vita alle sorelle attraverso i loro nomi.

Nacqui in un giorno di maggio del 1949 ma mia madre era morta molto tempo prima.
Mio nonno, uomo spensierato ed ottimista nonché esperto ballerino, si era risposato dopo la morte della prima moglie.
Rosa gli aveva regalato la libertà e due figlie e si era ritirata in silenzio, lasciando un vuoto quasi mai riempito appieno.
La giovane sposa, con occhi neri trasparenti e pieni di riso, sembrò possedere un forte sentimento di ribellione ma ben presto si dovette rassegnare in quella casa così piena di famiglia e di gente pronta a comandare.
Anch’ella portò alla luce due figlie femmine ed accettò le altre con quel sano istinto materno che la contraddistingueva: paziente e remissiva, era saggia e pratica.
La guerra la trovò del tutto impreparata.
Convinta che durante le retate solo gli uomini fossero in pericolo, al calar della sera seguiva fedele il marito nella cantina del carbonaio.
Il fetido odore e il sudiciume che abbondava in ogni angolo rendevano poco comodo quel provvidenziale rifugio, ma riuscivano a malapena ad affievolire i suoi sensi di colpa verso la prole, rimasta sola a casa.
Passi decisi, cadenzati, risuonarono per le larghe scale cardinalizie e trovarono tregua solo davanti alla porta denunciata.
Lo scampanellio familiare si annunciò normale,incapace di segnalare il pericolo.
Letizia andò ad aprire distratta con la sua andatura normale, orgogliosa dei suoi capelli ondulati di fresco.
L’unica già fidanzata, si era attardata fino allo spuntare dell’alba ed aveva dormito poche ore.
Quel piccolo gruppo scuro le risultò incomprensibile ed il suo sguardo si perse giù dal cornicione per ritrovarvi un po’ dell’azzurro cielo scomparso.
Dopo un attimo di vera assenza, emise forte un grido di disperazione e scalciò e si dimenò con tutte le forze nel tentativo di liberarsi e di allontanare le sorelle.
Sordi e abituati al dolore, gli uomini procedettero all’arresto.
La scena si tinse di colori artificiali e innaturali ed il grande specchio in stile neoclassico distorse le immagini delle due sorelle sopraggiunte: accorse più per l’incosciente curiosità di quella età  che per un eroico slancio di rivolta.
Incredule e impotenti, tentarono di abbracciarsi per rimanere unite ma sottile fu la crudeltà degli aguzzini che per prima cosa le isolarono.
La più giovane, Elvira, quasi sedicenne, non era ancora donna.
Piagnucolò come una bimba coi suoi occhini innocenti, resi ancora più espressivi da quel lago di lacrime.
Senza esitare, fu fatta salire per prima su una camionetta militare, pronta ad aspettarle davanti alla grande conchiglia dell’antico portone.
Ella si azzittì, seduta e sconfitta.
La maggiore, Grazia, alzò gli occhi verso gli appartamenti superiori e continuò a gridare per lasciare informazioni.
Era sicura di essere ascoltata: percepiva occhi da dietro le persiane chiuse.
Letizia seguì il suo esempio. In quel quartiere fino a Campo de’ Fiori, tutti amavano la sua solerzia e il dono naturale di saper restaurare a nuovo qualsiasi indumento rovinato: il suo rammendo era magico. L’arco della sua bocca, sempre aperto in un fresco sorriso, nascondeva con semplicità il naso aquilino.
Dov’era mia madre?
Nessuno aveva ascoltato il battito delle sue tempie che, unito in marcia con quello del cuore, sembrava scoppiare.
Il suo sguardo era fisso verso il basso. Immobile in un attacco di vero panico, non riusciva a decidere: attraversare il lungo corridoio, salire i gradini interni e correre dietro alle sorelle o gettarsi sulla coperta, tesa come braccia, della vicina che ripetutamente la chiamava al di sotto del terrazzino:
<<Rosina, che aspetti?! Buttati, ora vengono a prendere anche te… Rosina buttati!>>
Non comprese appieno il suo gesto: un forte istinto la guidò e si lasciò cadere in quel breve spazio senza fine.
Le vide scendere le scale dalla piccola feritoia del cortile e le amò come non mai.
Forte risuonò il suo martelletto da giudice, e chiara fu la sentenza: <<Colpevole!>>
La condanna fu dura e impietosa: si recluse in una sorta di esilio, al confino, lontana da sé e da Dio, nell’attesa di quel ritorno che non fu concesso a nessuno.
Rimasero ad Auschwitz tutte e quattro le sorelle, figlie di uno stesso padre e di una stessa sorte. Era un giorno di maggio del 1944 e fu in quel giorno che mia madre morì.

Il luogo della manomissione dei sampietrini e il momento, martedì 10, della loro posa.

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