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La Tunisia rompe con la Siria insanguinata da Assad. E l’Italia?

La Tunisia chiude l’ambasciata a Damasco. Anticipando analoga decisione degli Stati Uniti. Ce ne parla in questa corrispondenza Raja Elfani.  E l’Italia? Che fa l’Italia dopo il massacro di Homs con oltre tre cento vittime, in buona parte do nne e bambini? Silenzio dell’Italia di Monti?
Ecco il servizio di Raja Elfani:

La Tunisia anticipa l’annuncio US della sospensione diplomatica con la Siria oggi dopo la strage di Homs e il veto di Cina e Russia all’ONU. Seguono l’Arabia Saudita e la Gran Bretagna. Il 4 Febbraio il Primo Ministro islamista Jebali sconcerta l’opposizione con uno schiaffo alla politica estera: di palo in frasca Jebali richiama il suo ambasciatore, non senza lanciare un che Dio salvi la nostra comunità in Siria.
Rivelata oggi come una goffa premeditazione di una decisione internazionale, la mossa mira un primato ovviamente solo simbolico: è una finta accelerazione della gerarchia strategica internazionale. Figurarsi se i tempi della dinamica internazionale possano essere scalfiti, l’insignificante presunzione ha una funzione provinciale. Lo zelo degli islamisti al potere ha il merito di evidenziare una certa interpretazione scolastica della comunicazione internazionale, pur utilissima sul piano di ulteriori codici: familiarizzare e affiliarsi con il Qg della ideologia araba. Il collegio è il Golfo, credibile in materia di conservatorismo liberale. La guerra in Siria se ci sarà è un’occasione per uscire dalla marginalità e confrontarsi, come blocco coordinato, con le supremazie.
Siamo con la Siria alla seconda fase del cambiamento mediorientale, geopoliticamente precisato come l’impulso per diventare una regione inglobata dell’Occidente. Paradossalmente i paesi arabi sono in prima linea nella definizione del successo democratico, l’alibi di tutta l’impalcatura economica mondiale. L’approdo alla democrazia ha appunto un iter specifico che sembra tollerare gli estremismi. Perché?
L’espansione del modello democratico che una volta dipendeva da operazioni militari e strategie commerciali è diventata quasi automatica. Gli stati che aspirano allo scambio internazionale si allineano ormai volontariamente sui principi che li rendono mimetici. Un vantaggio c’è: evitare l’immagine della sopraffazione. Perciò il solo pretesto rimasto per l’interventismo oggi è la gestione dell’equilibrio globale. Però per far scattare un’emergenza di questo livello bisogna giustificarla, un compito sì vincolante ai livelli istituzionali ma che modera solo in apparenza le arroganze.
La realtà internazionale si basa sulla universalità della responsabilità planetaria. È con questa nuova nozione che il gioco democratico della imparzialità è arrivato a rappresentare un sistema di stabilità. Ogni regione del mondo può obbligare a ridimensionare quel sistema a patto di integrarvisi legittimamente. L’amalgama di ulteriori realtà implica in ogni caso trasformazioni del criterio globale di neutralità, ma lo scambio come servizio regolatore di beni e forze in quel variegato insieme deve essere preservato nella sua meccanicità.
A questo punto, com’è negoziato il riorientamento della politica interna dei paesi emergenti sulla linea internazionale?
Com’è stato rivelato con la recente guerra in Libia, le negoziazioni si fanno con le nuove forze nazionali se sono identificabili e già formate. Mentre durante la guerra si elimina il governo passato, viene esaminata l’evoluzione dell’opinione per costruire la facciata del prossimo potere. L’alleanza occidentale rappresentata da un commando militare internazionale interpreta le nuove necessità politiche e definisce le giurisdizioni e le competenze. Il gruppo locale che costituirà il futuro governo salda invece l’opinione su un aspetto unificante della cultura nazionale. Non a caso in Libia come in tutta la regione rispunta il cemento islamico.
Il passaggio all’ideologia religiosa dopo una politica di sfida economica modernista si è schematizzato dalla guerra afghana. Diversamente dalla rivoluzione iraniana, il fervore islamico in Afghanistan si è internazionalizzato con la figura di Bin Laden e l’organizzazione mondiale di Al – Qaeda.
L’internazionale islamista è un movimento che dal terrorismo si è incanalato nella politica di transizione, apparendo con le rivolte arabe mediterranee utile per l’elaborazione di una retorica democratica locale. Nel caso dei paesi arabi mediterranei, la democrazia globale è stata assimilata approssimativamente attraverso il mercato, per cui è rimasta una cultura senza colore anche se dominante. I cittadini hanno continuato a vivere sotto il baluardo dei contenuti nazionali finché non si è fatta tangibile la globalità di molti valori. Ma i governi non hanno risposto con un programma di adattamento strutturato. Con l’esplosione del cambiamento sociale in questi paesi, l’islam è reperito come l’unica forza coercitiva della comunità araba. E così un corpus di princìpi islamici giunge a formare l’intermediario che rende questa comunità consapevolmente globalizzata. Grazie anche a quelle tv satellitari che hanno contribuito a standardizzare l’identità araba.
Dopo un decennio di fermentazione, la coscienza globale sviluppata sull’internazionale islamista genera una convenzione politica che prende il sopravvento sull’antiterrorismo, precedente convenzione che aveva normalizzato le autocrazie nella regione. Lì il messaggio politico non può essere trattato al di fuori di questo calco. Il tentativo tunisino di coalizione intorno al nocciolo duro islamista riprende perciò letteralmente e come annunciato il modello turco del compromesso politico. Ma il riferimento delle affinità culturali si sta esaurendo via via che la coscienza mondiale s’identifica nel puro desiderio di libertà.
Intanto, anche se è stato tecnicamente indebolito dalla legislazione democratica, il motivo religioso torna ad essere incentivo di consenso facile in un contesto di tensione popolare. Demonizzato o appoggiato, lo strumento religioso è ancora valido per i governi arabi. È poi oltretutto un comodo mito per la percezione internazionale, indifferentemente ben accetto nelle sue due versioni.
L’internazionale islamista infatti più degli altri movimenti concretizza una fantasia collettiva: è il grande contenitore dell’ostilità popolare contro la propensione onnivora delle superpotenze. È un effetto verificato dalle intelligence di ogni sponda e largamente utilizzato. Da qualsiasi punto di vista comunque, l’illusione islamista sotto le sue forti tonalità culturali permette ancora e soltanto l’assimilazione passiva di un potere informe internazionale. Ovvero un potere non garantito da nessuna istituzione. È perciò diventato urgente, e d’importanza mondiale, gestire il doppiogioco politico innescato nelle regioni cresciute sul discorso antioccidentale isolando fra le altre la vera funzione dell’internazionale islamista.
Ahmadinejad, più di ogni capo orientale, si spinge fino al limite di questa politica pur sapendo che l’internazionale islamista non costituisce un’alternativa sul piano globale né può offrire autonomia. Perfino come politica interna l’indiscutibilità allegata alla religione si rivela controproducente, anzi porta velocemente come ora la Tunisia può attestare alla regressione e all’oppressione: tensioni imprevedibili che non possono giovare a lungo ai responsabili dei governi. Infine con tutto l’appoggio e la garanzia dei leader religiosi, la politica del compromesso non può reggere l’oscurantismo quando pretende di sostituire l’egemonia economica.   _ Raja ElFani

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