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Licia Pinelli a D’Avanzo (Repubblica, 2002): “Che si sappia chi ha ucciso Pino…”.

Diciotto maggio 2002: Giuseppe D’Avanzo intrervista Licia Pinelli su Repubblica.

Dopo vent’anni di silenzio parla la vedova di Pinelli
“Non mi interessa la punizione ma chi sa parli”
“Verità sulla fine di mio marito
solo così si supera il passato”
di GIUSEPPE D’AVANZO

MILANO – “E’ il mio destino ricordare. Per lungo tempo i ricordi mi venivano incontro e s’impadronivano della mia vita, quasi la schiacciavano. Sapevo di doverli tenere lontani, ma è un lavoro doloroso e spesso inutile. Ora, con quel che succede, i ricordi mi sono di nuovo tutti addosso e mi lasciano angosciata, pietrificata in un passato che non vuole passare. Guardi le mie mani…”. Licia Pinelli abita in una via appartata nei pressi di Porta Romana. La casa è ordinata, e silenziosa, le stanze sono in ombra. Non sediamo in salotto, ma in cucina intorno al tavolo tondo con la cerata. Beviamo una gazzosa. Licia Pinelli stende le sue mani sul tavolo per fermarne il tremore. Quando finalmente decide di parlare ancora – ora ha le mani chiuse a pugno – dice con un soffio di voce e d’impeto, come per un’urgenza che le brucia in petto: “Immagino soltanto una soluzione per questa tragedia lunga trent’anni: chi, quella notte, era nella stanza al quarto piano della questura di Milano, parli, racconti la verità. La verità è giustizia e soltanto la verità potrà rimarginare le nostre ferite e liberarci del passato”.

Quel che succede è questo: per il procuratore D’Ambrosio, “l’anarchico Valitutti” – era nel corridoio dell’ufficio politico della Questura di Milano la notte del 15 maggio di trent’anni fa, quando suo marito Pino Pinelli, ferroviere e anarchico, volò giù nel cortile – ha testimoniato che Luigi Calabresi non era in quella stanza…

“Non è vero, Lello Valitutti ha detto il contrario. Ha detto di non aver visto uscire Luigi Calabresi dalla stanza. Se il commissario non era uscito, vuol dire che era dentro”.

Secondo lei, che cosa accadde in quella notte?
“Un giudice (Caizzi) ha parlato di ‘morte accidentale’, un altro (Armati) di ‘suicidio’, D’Ambrosio, infine, di ‘disgrazia plausibile’. Io ho sempre immaginato che Pino sia stato duramente picchiato. Si è sentito male. Lo hanno creduto morto, lo hanno buttato giù dalla finestra”.

La ricostruzione di D’Ambrosio è un’altra.
“Sì, D’Ambrosio descrive un’altra scena. L’interrogatorio è finito. Pino si alza. Accende una sigaretta. Si avvicina alla finestra. La ringhiera è bassa. Pino apre un battente che sbatte contro il muro. Si sente male. E’ tra due poliziotti, Panessa e Mainardi. Precipita. Nessuno vede, tutti gli altri alzano gli occhi solo quando Pino cade giù e vedono Panessa che si sporge dietro di lui. Per trattenerlo, dice D’Ambrosio. Per spiegare che cade due o tre metri in fuori, il procuratore sostiene che c’è il malore e un appoggiarsi verso il vuoto. Anche D’Ambrosio non è sicuro del fatto suo. Dice che è una ricostruzione ‘verosimile’. Verosimile per verosimile, ce n’è allora una terza”.

Quale?
“D’Ambrosio ha ragione nella prima parte del racconto. L’interrogatorio è finito. Pino si accende una sigaretta. E’ libero, sta per tornare a casa. E’ allegro e come rinfrancato dopo tre giorni di pressioni. Forse troppo rinfrancato. A quel punto, non rinuncia alla battuta sarcastica. E’ nel suo carattere. Sfotte i poliziotti e uno di loro cerca di mollargli un ceffone: ne resta traccia sul collo sotto forma di ‘macchia ovolare’. Il colpo gli fa perdere l’equilibrio. Questa scena mette insieme molti dettagli. Il trambusto che avverte Valitutti, seduto in corridoio in attesa di essere interrogato. Il volo di Pino senza un grido. Quelli nella stanza che vedono solo le gambe, le scarpe di Pino che precipita e il brigadiere Panessa, il più vicino, che si sporge per afferrarlo”.

Suo marito Pino le ha mai parlato di Luigi Calabresi?
“Una volta me ne ha parlato. Mi disse: ‘C’è un giovane alla questura, è intelligente, ci si può parlare'”.

L’anarchico si fidava del poliziotto?
“Pino era fatto così. In ognuno vedeva del buono, era pieno d’entusiasmo, ma non era uno sprovveduto. Calabresi era sempre un poliziotto”.

E’ stato scritto che tra loro, tra il commissario giovane e intelligente e l’anarchico generoso e appassionato, ci fosse una specie di amicizia. Si scambiavano libri ad esempio.
“Calabresi regalò a Pino ‘Mille milioni di uomini’ di Enrico Emanuelli. Pino allora aveva ricambiato Calabresi con una copia dell’Antologia di Spoon River che era il libro della sua vita. Nei quattordici anni che abbiamo vissuto insieme, ha sempre riletto quelle poesie aggiungendo, nelle pagine, piccoli biglietti con i suoi commenti. Così gli deve essere venuto naturale regalare il libro a Calabresi come avrebbe fatto con chiunque altro. Cose del tipo: sto leggendo questo libro, non lo conosci? Leggilo…”.

Ha mai incontrato la vedova Calabresi?
“No”.

L’ha mai sentita?
“No”.

Non ha avuto mai voglia di condividere con lei i suoi ricordi?
“No, mai. Viviamo in due mondi diversi”.

Ma il dolore che vi è stato inflitto non è lo stesso? Intorno a questo dolore comune non ha mai pensato che potesse nascere una solidarietà, e forse anche una comprensione?
“E’ vero forse, ma la morte di Luigi Calabresi non mi risarcisce della morte di Pino”.

Ha conosciuto il commissario?
“L’ho visto una sola volta, in tribunale durante il processo a Lotta Continua”.

Che impressione ne ebbe?
“Mi ha fatto pena. Quando è entrato in aula, hanno preso a gridargli dal pubblico: ‘Assassino!’. Per un attimo mi sono sentita nei suoi panni. La gente continuava a gridare e mi ha fatto pena”.

Perché?
“Perché erano colpevoli tutti, non soltanto Luigi Calabresi, mentre in quell’aula, agli occhi della gente, soltanto lui era l’imputato, soltanto lui era il colpevole. Per me erano tutti imputati allo stesso modo, il questore, il prefetto, il ministro e ancora più su. Io non volevo, non trovavo giusto che si aggredisse il capro espiatorio. Per questo ne avevo pena”.

Hai mai pensato che Calabresi potesse essere sincero nella sua ricostruzione dei fatti?
“Me lo ha chiesto anche Piero Scaramucci in un libro che abbiamo scritto venti anni fa (‘Una storia quasi soltanto mia’). Gli risposi che se Calabresi avesse detto la verità, sarebbe subito venuto a dirmela quella sera stessa. Quando gli ho telefonato, quella notte, invece mi disse: ‘Signora, abbiamo molto da fare!’. Non ho motivo per cambiare la mia risposta. Calabresi non ha mai detto davvero tutta la verità. All’inizio disse che Pino era ‘fortemente indiziato’. Un mese dopo, che ‘era una bravissima persona’ e che ‘non c’erano indizi contro di lui'”.

Perché allora, dopo trent’anni e nella convinzione che Calabresi sia stato un capro espiatorio, non perdonare o pacificarsi con la famiglia Calabresi?
“Luigi Calabresi fu, sì, il capro espiatorio, ma anche il responsabile morale di quanto accadde in questura. Importa poco se fosse o non fosse nella stanza. Fu lui a convocare Pino in questura. Fu lui a trattenerlo nel suo ufficio illegalmente per tre giorni. Era il capo. Erano suoi gli uomini che lo interrogarono. Io li ho denunciati tutti e, oggi come ieri, non voglio far ricadere la responsabilità di quanto è accaduto soltanto su un’unica persona”.

Quali sono state le sue reazioni quando hanno ucciso il commissario?
“Mi sono sentita derubata”.

Perché?
“In quel momento, passato lo sgomento e la paura, ho capito che non avrei avuto più la verità che stavo cercando”.

Per l’assassinio di Calabresi sono stati condannati Sofri, Bompressi e Pietrostefani…
“Io non credo alla loro colpevolezza. Anche a Lotta Continua, come a me, è stata sottratta la verità. La ‘campagna’ di Lotta Continua aveva lo scopo di dare una verità alla morte di Pino. Avevano ottenuto il processo, non avevano alcuna ragione di ucciderlo. Questo penso…”.

Signora, ci deve essere da qualche parte una strada per chiudere questa stagione di odio e di morte. Non crede che ognuno, per la sua parte, dovrebbe cercarla?
“Io credo che quella strada possa essere soltanto la verità, non la menzogna o la disattenzione o l’oblio. Soltanto la verità potrà fermare il tremore delle mie mani, restituirmi una quiete capace di tenere lontani i ricordi. Voglio conoscere la verità. Non mi interessa la punizione dei colpevoli. Non mi piacciono le prigioni, non è in prigione che i colpevoli comprendono la natura dei propri errori. Voglio sapere chi ha fatto che cosa. Chiedo che siano attribuite delle responsabilità. Mio marito è entrato vivo in una questura, ne è uscito morto. Perché? E chi ne è responsabile? Uno Stato forte e credibile sa afferrare e sopportare la verità. Se è spaventato dalla verità, quello Stato rinuncia a se stesso, si indebolisce, perde, si dichiara sconfitto. Per ritornare alla sua domanda, la strada per chiudere questa maledetta stagione di odio può essere soltanto la giustizia”.

Parola alquanto sbiadita, non le pare?
“Non parlo della giustizia dei tribunali, ormai. Per me, giustizia è la consapevolezza degli uomini di che cosa è accaduto. Che si sappia chi ha ucciso Pino. Chi ha ucciso Pino ne sia riconosciuto responsabile. Chi sa, trovi il coraggio di dire la verità: è la sola strada verso una pacificazione che sappia liberarci del passato”.

(18 maggio 2002)

Poi nel 2009 però Licia Pinelli e Gemma Calabresi si sono incontrate al Quirinale. Un momento importante e denso di commozione. L’interrogativo di Licia Pinelli però è ancora aperto…

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