I Mille dentro il carcere di Rebibbia (un posto dove è impossibile avere un lansox). Pomeriggio di discussione sull’essere italiani e sul Mezzogiorno, con interventi anche di Totò Cuffaro
giovedì, 7 Giugno, 2012Ho incontrato i due gruppi di lettura delle Biblioteche di Roma a Rebibbia Femminile a Rebibbia nuovo complesso (maschile).
Nove detenute da una parte, una ventina di detenuti dall’altra, quattro ore di discussione nel pomeriggio di ieri.
E in mezzo il mio libro che letto da pochi di loro – ne hanno scarse copie nelle rispettive biblioteche – ha suscitato interesse (e forse perfino entusiasmo in qualcuno di loro) man mano che se ne è parlato e affrontato il contenuto.
Ad interessare in una materia all’apparenza così piuttosto distante dall’oggi, ma è solo un’apparenza perché poi pian piano invece i punti di contatto sono emersi numerosi, è stato probabilmente il carattere di irregolarità di quelle vite di garibaldini a contatto con un paese che fin dall’inizio ha mostrato parecchie sue miserie. E questo è piaciuto tra le donne di “camerotti” e “cellulari”, i nomi dei due principali luoghi di detenzione del “femminile”.
Dove tra l’altro è emerso che è difficile, quanto a malattie (una detenuta ieri si è sentita male), avere farmaci giusti. Il voltaren te lo danno, ma un gastroprotettore è invece impossibile da avere. E’ il carcere, certo, ma che disastro. In compenso ho lasciato loro una copia della “Lunga notte dei Mille” che mi ero portato dietro e l’ho munita di una dedica che ho cercato di fare in forma collettiva (a un paio di detenute, compresa un’ex brigatista). Prima dell’incontro ho scoperto che la richiesta di leggere il Jane Eyre della Austen non poteva essere accontentata: il libro dell’Austen, presente con altri titoli, non c’è a Rebibbia Femminile. In compenso i bambini “detenuti”, i piccoli sotto i 3 anni che continjuano a fare la vita da carcerati senza aver ne alcuna colpa, sono attualmente una ventina. Ancora una ventina.
Al maschile la discussione si è presto sviluppata sul Mezzogiorno d’Italia, grazie anche alla presenza di calabresi e siciliani. Che cosa significa essere italiani è stato un nodo affrontato a più voci e il fatto di farlo dentro una struttura penitenziaria, insieme a detenuti di colore e a un carcerato eccellente come il siciliano Totò Cuffaro, ha reso ancor più avvincente il dibattito. Il discorso “antipiemontese” rispetto all’unificazione del paese ha trovato parecchi sostenitori. L’ex governatore della regione siciliana ha portato parecchi argomenti, anche alimentari, in questo senso.
Dal punto di vista più criminologico invece un detenuto è apparso convinto che dietro il “suicidio” con un chiodo in testa col quale il calabrese Francesco Piccoli all’inizio del mio libro si uccide per protesta contro chi gli ha tolto la pensione dei Mille, ebbene dietro quel gesto estremo si celerebbe invece un omicidio. Inutilmente gli ho detto di non essermi imbattuto in tracce in questo senso, il detenuto è apparso convinto che quel gesto non sia stato solo autolesionismo.
Guardavo le loro facce, durante la discussione che si è protratta fino alle sei del pomeriggio, non erano molto diverse da quelle degli attori di “Cesare deve morire”.
Anche loro alla fine hanno chiesto a Fabio De Grossi, il responsabile delle Biblioteche di Roma che mi accompagnava insieme al gruppo di bibliotecarie dipendenti da Zetema e a una giovane volontgaria, una fornitura di qualche altra copia del libro. De Grossi ha promesso di portarle presto. Fuori della stanza un paio di agenti della polizia penitenziaria in attesa della fine dell’incontro ci hanno ricordato che tutto questo avveniva in un carcere…
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