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Koji Wakamatsu

Tokyo: investito da un taxi e ricoverato in ospedale ha resistito cinque giorni prima di morire. Una morte abbastanza pulp e teatrale come i suoi film, per chi li ha visti. Si chiamava Koji Wakamatsu, uno degli autoridi spicco della scuola pulp-poliziesca nipponica, aveva 76 anni. Kitano qualcosa da lui l’ha imparato. Se non altro l’amore per le storie pulp, come l’ultima che ha portato in settembre a Venezia, The Millennial Rupture.

In principio però aveva studiato agraria in un liceo di Tokyo dove poi inizia a lavorare come operaio e fattorino. La sua affiliazione ad una gang della yakuza gli era poi costata la prigione. Uscito dal carcere a 23 anni era entrato  nell’industria televisiva come assistente alla regia. Dopodiché eccolo esordire nei titoli erotici come il “Decamerone orientale” (1969). Tra i titoli precedenti ”Embrione”, ”Angeli violati”, ”Su su per la seconda volta vergine” e ”Storie di amanti moderni”.

Nei primi anni Settanta continuò il genere softcore con ”Storia underground del sesso violento giapponese” ed ”Estasi degli angeli”. Complessivamente ha all’attivo 105 titoli cinematografici. Nel 1965 il regista ha fondato la factory cinematografica ”Wakamatsu Production”, producendo una ventina di film, tra cui nel 1976 ”L’impero dei sensi” di Nagisa Oshima.

Qui di seguito una recensione del film portato ora a Venezia. Dimenticavo: come segnala Pio D’Emilia su Fb la camera ardente (nella foto sopra) ne ha viste oggi di tutti i colori: “Oltre ai familiari – ha scritto D’Emilia -, c’erano tutti i “sopravvissuti” del “movimento”, compresi gli ex dell’Armata Rossa giapponese. Domani la cremazione.

SENNEN NO YURAKU (THE MILLENNIAL RAPTURE)

di KOJI WAKAMATSU

Vagiti e rantoli, amore e morte, narrazione e estetica, opposti che si scontrano e coesistono in uno spazio mitico. Koji Wakamatsu, la cui carriera di sperimentatore dell’arte cinematografica copre mezzo secolo di storia giapponese, presenta negli Orizzonti Sennen no yuraku (The Millennial Raptus). I pianti dei bambini benvoluti dagli dei, i rantoli del sesso desiderato dagli uomini, lo spasmo dell’erotismo che scivola in fretta verso l’esalazione dell’ultimo respiro, il fluire del racconto che scorre come una fiaba mitica e la gelida e alienante pasta azzurrognola della telecamera digitale: questo il mondo che Wakamatsu propone portando sullo schermo il successo letterario Mille anni di piacere dello scrittore Kenji Nakagami. Wakamatsu concentra il lavoro di regia sugli attori che si muovono sullo sfondo di un villaggio portuale orrendamente squallido e contemporaneo. L’abbigliamento è volutamente e vistosamente teatrale, appare antico ma non propone nessuna ricostruzione storica e filologica. L’insieme dà come risultato un non-tempo, un tempo che può essere qualsiasi epoca. La levatrice del paese racconta le tre generazioni di una famiglia di uomini bellissimi, per cui le donne impazziscono e accomunati da una frettolosa e tragica morte. Una maledizione ancestrale ha reso il loro sangue maledetto al punto tale che morte e amore vi gravitano attorno attratti in modo irresistibile e sui loro corpi cadono senza rimedio. L’azione si svolge nel vicolo d’un borgo marinaro di fronte al quale si apre una piccola baia, che lo stesso regista ha scelto per la sua forma uterina, come a voler raccogliere in un luogo protetto lo svolgesi della narrazione. Graffiano lo spettatore le scelte estetiche nelle quali, se l’audio è perfettamente sorretto da una bellissima e ricercata colonna sonora di musica contemporanea giapponese, la parte video è volutamente e vistosamente non classica, dando allo spettatore la sensazione di un videotape domestico, lontano anni luce dal calore della vecchia pellicola.

Simone Agnetti

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