Ottomila immigrati chiusi nei Cie nel 2012. Il rapporto di CorriereImmigrazione su questo orrore
domenica, 3 Febbraio, 2013Da Corriere Immigrazione riprendo questo articolo che fa il punto sui Cie. Nel 2012 gli immigrati trattenuti nei Cie sono stati quasi ottomila. Ecco l’articolo di Stefano Galieni:
In primo piano
Cie, un altro anno nero
Il rapporto di Medu conferma: queste strutture sono lager, il prolungamento della detenzione è inutile. Ma il Viminale non ha nulla da dire. Almeno a noi.
Il rapporto, appena presentato, si basa sui dati forniti dalla Polizia di Stato. Il primo elemento che emerge è la sostanziale inutilità (ai fini dell’espulsione) del prolungamento a 18 mesi del tempo massimo di trattenimento. Nel 2012 sono stati 7.944 i migranti trattenuti. Di questi poco più della metà è stata effettivamente rimpatriata, con un tasso di efficacia (che orrore un’espressione così in questo contesto!) del 50,54%. Rispetto al 2010 l’incremento è del 2,3%, rispetto al 2011 dello 0,3%, a fronte di costi umani ed economici elevatissimi. Per di più, se si compara il numero effettivo di rimpatri effettuati nel 2008 (quando ancora il termine massimo di trattenimento era 60 giorni) con quello del 2012, si registra una flessione. Cambiando prospettiva, i Cie riescono a incidere appena sull’1,2% degli irregolari presenti in Italia che sarebbero circa 330 mila (fonte Ismu).
Ma il rapporto dei Medici per i Diritti Umani si sofferma molto anche sulle pessime condizioni di vita nei centri, sull’aumento delle rivolte, delle fughe (sono aumentate di oltre il 33%), degli atti di autolesionismo. «Alla luce delle ulteriori evidenze acquisite in un anno di monitoraggio, riteniamo necessario riportare la questione del superamento dei Cie nel dibattito elettorale delle prossime elezioni politiche», si legge nel comunicato diffuso da Medu. «Le gravi e ripetute violazioni dei diritti umani dei migranti – ancor più dell’evidente inefficacia dei centri di identificazione ed espulsione – impongono una radicale revisione dell’attuale sistema di detenzione amministrativa. Tale revisione non può che avvenire nell’ambito di una profonda riforma della legge “Bossi-Fini” che porti a politiche migratorie atte a garantire reali possibilità di ingresso regolare e di inserimento sociale. Su questi argomenti è quanto mai urgente che le forze che si candidano a governare l’Italia si esprimano con la dovuta chiarezza».
Di fronte a questi dati, obiettivi e incontestabili, e a queste valutazioni non è dato però sapere come si ponga il Ministero dell’Interno. Abbiamo provato a contattarlo. Volevamo un parere. Non è stato possibile averlo. Almeno per noi. Qualcosa di interessante da dire ce l’hanno, invece, Asher Colombo, dell’Università di Bologna, autore del volume Fuori Controllo?, ucile Kashetu Kyenge, portavoce della Rete Primo Marzo, Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato, docente universitario e autore del freschissimo di stampa Diritti sotto sequestro, e Luigi Paccione, avvocato e promotore della class action per la chiusura del Cie di Bari.
Asher Colombo: «La tesi dell’inefficacia dei Cie richiama alla mente il discorso del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Il 50% di espulsi sul totale dei trattenuti è tanto o poco? Ma, come si spiega agli studenti al primo anno di università, 50% non è né tanto né poco. Dipende dai termini di confronto. E confrontare il valore attuale con quello raggiunto prima dell’aumento della durata massima del trattenimento nei Cie ha, a mio avviso, poco senso. Già prima di quella estensione, infatti, il numero medio di giorni di trattenimento effettivamente rilevato era ben lontano da quello massimo: meno di 2 mesi contro 6, e l’estensione a 18 mesi non avrà prodotto alcuna crescita sulla durata media dei trattenimenti, perché in realtà ragioni economiche tendono a rendere tale durata la più bassa possibile compatibilmente con gli obiettivi dello strumento. Più utile è paragonare quel 50% con la percentuale di espulsioni raggiunte con gli altri strumenti a disposizione, ovvero il reato di immigrazione clandestina e le espulsioni complessive sul totale dei rintracciati in condizioni di irregolarità (l’unica popolazione misurabile, dato che sugli irregolari abbiamo solo stime in genere abbastanza fantasiose). Gli espulsi, tra i denunciati per il reato di immigrazione clandestina, sono circa il 20%, gli espulsi sul totale dei rintracciati suppergiù il 25%. In entrambi i casi, assai meno di quanto si riesca a fare con i Cie. Tanto basta per affermare che, se guardiamo all’efficacia relativa, i Cie sono lo strumento che ottiene i livelli più elevati. Difficile definirlo uno strumento fallimentare quindi. Ma se guardiamo altri aspetti – le certe criticità nel rispetto dei diritti umani, le discutibili condizioni di trattenimento – la prospettiva di ridurre il più possibile il ricorso a questo strumento (che la normativa europea – e italiana che questa ha recepito – concepisce come strumento di ultima istanza) ha chiaramente un senso. Un dato che viene spesso omesso, e che in realtà non è mai stato possibile analizzare a fondo per mancanza di informazioni solide – è la composizione dei trattenuti nei Cie a seconda della loro provenienza. Non mi riferisco a quella nazionale (che pure conta, dato il ruolo che svolgono gli accordi di riammissione nel rendere più o meno probabili i rimpatri), ma alla condizione di ex detenuti o meno. Una quota rilevante di trattenuti nei Cie viene infatti dal carcere, dove ha scontato condanne più o meno lunghe per reati comuni. Nella maggioranza dei casi, la loro durata supera di gran lunga quella del trattenimento nei Cie, e sarebbe del tutto congrua per avviare, e magari concludere, le procedure di identificazione e di espulsione, riducendo da un lato la sofferenza dei trattenuti, dall’altro il rilevante esborso economico che pesa sulla collettività. Perché questa strada non è mai stata, non solo praticata, ma nemmeno presa in considerazione?».
ucile Kashetu Kyenge: «Posto che il nostro obiettivo è arrivare alla chiusura dei centri, dobbiamo comunque porci il problema delle condizioni di vita all’interno. A me preme, in questo momento, focalizzare in particolare un aspetto, una violazione e, cioè, quella del diritto alla salute, riconosciuto dalla nostra Costituzione, a prescindere dal fatto che si abbia o meno un permesso di soggiorno o un qualsiasi altro documento, e palesemente ignorato nei Cie. In tutti quelli che abbiamo visitato in questi mesi non sono rispettate le regole minime per la tutela della salute e non sono rispettati i diritti della persona. Non è ammissibile che, in strutture in cui si può teoricamente restare parcheggiati per un anno e mezzo, siano garantite solo le cure di prima emergenza. Dovrebbe essere prevista invece una continuità di cura, soprattutto per i tanti che entrano portando con sé malattie croniche o trasmissibili. Se tali patologie non vengono curate bene, se non si attuano piani di prevenzione, va a rischio la salute di tutti, non solo dei trattenuti. E invece, nelle visite che sono state effettuate nei centri, nei tanti rapporti usciti, emerge che anche le convenzioni con le Asl non funzionano, che la vita promiscua è causa essa stessa della trasmissione di patologie anche gravi che mettono a repentaglio la salute pubblica. Da questo sistema bisogna uscire».
Fulvio Vassallo Paleologo: «Il rapporto di Medu mette bene in evidenza il costo esorbitante e la sostanziale inutilità dei Cie come luoghi che possano favorire la politica dei rimpatri praticata dall’Italia. Tutto dipende sempre e soltanto dagli accordi di riammissione. Alcuni di questi, proprio quelli che garantiscono i rimpatri (come nel caso di Egitto, Tunisia e Nigeria) violano il regolamento Frontiere Schengen e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Con l’avallo dei consolati, consentono, infatti, delle vere e proprie espulsioni collettive, senza il riconoscimento individuale, ma solo con la generica attribuzione della nazionalità. Inoltre, dopo che l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo in numerose occasioni, per violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti rispetto a detenuti in carcere ( anche stranieri), sarebbe tempo che si diffondessero i ricorsi alla Corte di Strasburgo e alla Corte di giustizia dell’Unione Europea di Lussemburgo, per denunciare i casi di abusi e di trattamenti inumani che si verificano nei Cie e nei cosiddetti centri informali (nei quali gli immigrati appena sbarcati sono trattenuti senza alcun controllo da parte di un giudice). Il prolungamento dei tempi di trattenimento amministrativo ed il trattenimento di fatto stanno rendendo sempre più frequente gli abusi nell’esercizio dei poteri discrezionali delle autorità amministrative (dalla Direzione centrale immigrazione del Ministero dell’Interno fino alle Prefetture ed agli uffici immigrazione delle Questure), atti e comportamenti di fatto sottratti a qualsiasi controllo dagli ultimi pacchetti sicurezza del 2009 e del 2011 di Maroni. Ed il governo uscente non ha fatto altro che mantenere queste prassi amministrative e le norme che ne sono alla base».
Luigi Paccione: «La Relazione Medu sui Cie, con i suoi dati statistici riferiti al 2012, conferma la brutalità del torto di massa che lo Stato italiano infligge alla comunità indifferenziata delle persone detenute illegalmente in questi centri extra ordinem. Si tratta di luoghi ove si pratica, contro ogni norma di diritto positivo, la carcerazione illegale – che equivale a tortura – di esseri umani che non hanno commesso reati punibili con la reclusione. È significativo rilevare come il dibattito in corso tra gli schieramenti politici non riservi la benché minima attenzione su tale tema, che a mio avviso è invece nevralgico per la difesa dello Stato di diritto. Emerge quindi come incombente il pericolo che la zona d’ombra del razzismo istituzionale e della violazione dei diritti umani possa allungarsi sempre più nel Paese, conquistando nuovi spazi ed erodendo progressivamente le forme costituzionali delle libertà democratiche che comprendono anche, e soprattutto, i diritti civili e sociali delle persone meno garantite, tra le quali oggi spiccano in ogni angolo delle nostre città i migranti [compresi i minori] senza permesso».
Stefano Galieni
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