Sulle donne del Sud che si ribellano…
sabato, 6 Aprile, 2013Riprendo da 27° Ora di corriere.it questo resoconto sul convegno promosso da DaSud alla Casa delle donne in via della Lungara a Roma con Libera ecc “Le donne del Sud parlano”. Questa mattina un interessante dialogo sulle donne che rompono con la mafia e soprattutto la ‘ndrangheta, con Elisabetrta Tripodi sindaca di rosario e la magistrata Anna Canepa tra le altre, poi la cantautrice Francesca Prestia (nella foto) con la “Ballata di Lea”…Ecco cosa ha scritto Giovanna Pezzuoli:
Donne di mafia: Giusy, Carmela e le altre Il coraggio di parlare per amore dei figli
Magistrate, giornaliste, sindache e scrittrici riflettono sulle trasformazioni messe in atto dai comportamenti delle donne. Donne ribelli e mogli di boss pentite che si raccontano in documentari e monologhi
Tags: criminalità organizzata, narrazioni, ribellione
“I Sud, le mafie: le donne si raccontano”. Come Carmela Rosalia Iuculano, che nel monologo tratto dal testo di Alessandra Dino “Liberi di scegliere” descrive l’incredibile percorso della moglie di un boss della mafia siciliana. Matrimonio riparatore a 18 anni con Pino Rizzo, legato a Bernardo Provenzano, tre figli, anoressia, depressione tra botte e tradimenti, poi l’arresto insieme al marito. E la decisione di parlare, che alla fine ha spedito in galera un intero clan. A 39 anni colei che gestiva i proventi delle estorsioni vive con un nome nuovo, in un luogo protetto. O come Giusy Pesce, che nel documentario di Uski Emilia Audino, racconta la sua tormentata vicenda. Trent’anni e tre bambini, nipote del boss Antonino di Rosarno (Reggio Calabria), condannata a morte dagli uomini del suo clan perché ha un amante. Si salva perché l’arrestano e accusa tutti, padre, madre, marito, cugini…
“I Sud, le mafie: le donne si raccontano” è il titolo di un convegno nazionale, alla Casa Internazionale delle donne di Roma, che fino a domani riunisce scrittrici, registe, magistrate, sindache, giornaliste, fotografe, sociologhe per riflettere sulle trasformazioni scaturite dai nuovi comportamenti delle donne. Donne che lavorano contro le mafie, creatrici di nuove pratiche di resistenza al Nord come al Sud, oppure donne di mafia, testimoni e collaboratrici di giustizia, che si sono ribellate al sistema.
“Che cosa insegnano queste pentite, queste donne di mafia a noi che ci definiamo “donne contro”?”, si chiede Gisella Modica, palermitana, della Società italiana delle letterate, tra le redattrici della rivista Mezzocielo. “Oggi che nelle mafie è cambiato quasi tutto, occorre raddrizzare il tiro – prosegue – antichi sodalizi come l’Associazione delle donne siciliane contro la mafia in fondo mutuano un pensiero e una pratica dell’antimafia che sono ancora “maschili”.
Queste donne di mafia che si sono “sottratte”, sono partite dal loro vissuto, hanno capito che educando i figli erano l’anello di congiunzione dell’ordine mafioso. E così hanno spezzato la catena. Ecco perché la ‘ndrangheta le fa sparire con l’acido”
Donne che sembrano ribaltare il punto di vista: la pratica vincente non è tanto andare alle manifestazioni, la resistenza non basta più, occorre una trasformazione dall’interno. “Si sottraggono ma al tempo stesso impongono l’ordine della madre – dice ancora Gisella – non lo fanno per desiderio di legalità, giustizia. Lo fanno per amore, per le figlie, i figli. Che possono seguire il loro esempio”.
Nuove strade da percorrere, nuove pratiche come quelle messe inatto dalle “Donne del digiuno” che a Palermo nel 1992, dopo le stragi, per tre mesi hanno occupato le piazze imponendo la presenza dei loro corpi.
“Questa terra così tormentata nutre la passione politica e il coraggio del gesto delle donne. Che spesso sono le prime a muoversi, a reagire”, dice Pina Mandolfo, catanese, autrice con Maria Grazia Lo Cicero del video che dà il titolo al convegno. Una serie di interviste, con momenti di comicità, a scrittrici, donne di cultura siciliane che parlano del loro rapporto con la terra, del radicamento, di che cosa significa stare al Sud.
“Donne forti che fecero sventolare dalle finestre le lenzuola “antimafia” e ora sono in prima fila nell’opporsi al Muos, il sistema di comunicazione satellitare in costruzione a Niscemi, in provincia di Caltanissetta”.
Il rapporto tra donne e mafia diventa sempre più centrale, scrivono nel dossier “Sdisonorate” Irene Cortese e Celeste Costantino. Le donne uccise dalla mafia sono più di 150. Morte per impegno politico, vittime di delitti d’onore o “suicidate”. La prima è del 1896, Emanuela Sansone, uccisa a Palermo a 18 anni da mafiosi per ritorsione nei confronti della madre che li aveva denunciati.
“Ma non basta raccontare le storie di donne che hanno avuto a che fare con la criminalità organizzata, sia come vittime, sia come pentite. Occorre dare a questo fenomeno uno sguardo di genere”, sostiene Celeste Costantino, reggina, dell’associazione Da Sud, neo eletta alla Camera con il Sil, che al convegno presenta la graphic novel, creata con Marina Comandini, su Roberta Lanzino, la ragazza uccisa a fine anni ’80.
“La mafia ha schemi assolutamente patriarcali, maschilisti, sessisti. Unica eccezione la camorra dove le donne hanno avuto un protagonismo particolare. Non è casuale per esempio l’utilizzo dell’acido muriatico per eliminare le vittime, ostentando un richiamo al silenzio totale, rituale soprattutto della ‘ndrangheta che per anni ha goduto di un falso codice d’onore per cui non avrebbe mai toccato donne e bambini.
Un falso storico, le donne sono state sempre utilizzate per la vendetta. Se uno si ribella, la punizione esemplare tocca la madre, la moglie, la sorella. Nell’elenco delle 150 donne uccise dalla mafia, il 70% sono calabresi”.
“Un altro esempio? In Calabria se si vuole screditare una persona che si è ribellata ed è stata uccisa, si fa circolare la voce che l’hanno ammazzata per questioni di onore, facendo cioè trapelare il sospetto che avesse una relazione con una donna che non poteva permettersi. E la gente pensa: se ha osato tradire un compaesano hanno fatto bene a eliminarlo. Un meccanismo perverso, che utilizza come “alibi” il cosiddetto delitto passionale”.
Ripartire dal Sud: è questo il senso profondo del convegno. Un’identità a volte faticosa, quasi un “marchio di appartenenza insopportabile”, come scrive la regista Costanza Quatriglio . Ma oggi, come mai, il Sud diventa per lei (e per molte altre) la parte per il tutto. “Se vogliamo davvero capire che cosa è successo in questi ultimi vent’anni – scrive ancora – dobbiamo affrontare ciò che per troppo tempo abbiamo rimosso nell’illusione di essere portatrici di narrazioni globali, come se il Sud fosse qualcosa da nascondere sotto il tappeto di uno sviluppo di cui essere degne…”. Ripartire significa rinarrare le storie che ci riguardano. Come quella di Anna Maria Scarfò, costretta a lasciare il suo paese, San Martino Taurianova, in Calabria, per provare a ricostruirsi una vita dopo che giovanissima aveva osato denunciare il gruppo di uomini che per tre anni l’aveva violentata.
Una denuncia, che come racconta lei stessa in Malanova, scritto con la giornalista Cristina Zagaria, le è costata cara: “Ormai sono la prostituta del paese”, confessava con amarezza.
Abbandonata da tutti, con la sua vita e quella dei suoi familiari (madre, padre, sorella più piccola) rovinata da minacce e intimidazioni non solo da parte dei suoi aguzzini, ma anche dalle cosiddette donne del Sud, le mogli, le madri, le figlie dei violentatori. Una storia tutta da raccontare e da capire.
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