Informazioni che faticano a trovare spazio

Le violenze degli scafisti somali su una giovane eritrea raccontate al Gip di Palermo

Da La Stampa il racconto delle violenze subite da una giovane immigrata eritrea di Lampedusa, violenze ad opera degli scafisti somali. Ecco:

“Ci violentavano a turno in quel capannone nel deserto”
L’unica sopravvissuta al naufragio di Lampedusa accusa il suo scafista carceriere
la Stampa, 14-01-2014
LAURA ANELLO
PALERMO – E’la sopravvissuta. La sopravvissuta a tutto. Alla traversata nel deserto, al rapimento, agli stupri, al più grande naufragio nella storia recente del Mediterraneo. L’unica superstite delle venti ragazze predate, torturate, violentate prima dell’imbarco che adesso è qui, in un’aula di giustizia, a puntare il dito contro Elmi Mouhamud Muhidin, il venticinquenne somalo che ogni sera ne sceglieva una e la portava fuori con i suoi complici. Chi restava dentro, nel capannone sperduto nel deserto libico, sentiva le urla, le botte, le risate, le grida: «Basta, pietà». E sembra portarla sulle spalle, Florence – la chiameremo cosi questa ragazza le cui iniziali sono E O. – la vita e la morte delle compagne che prima sono passate dall’inferno della prigionia e poi sono annegate nel naufragio del 3 ottobre a Lampedusa.
Piccola, magra, i capelli corti, lo smalto rosso alle unghie, un giubbotto bianco, la ragazza eritrea parla davanti al gip di Palermo Giangaspare Camerini nel corso dell’incidente probatorio al processo contro il carceriere-trafficante somalo: è la prima volta che i sette superstiti di quel naufragio trattenuti finora a Lampedusa (erano otto, ma uno ha fatto perdere le sue tracce) parlano in un’aula di giustizia. «Che tipo di violenza ha subito?», le chiede il giudice, mentre in aula sembra di sentire l’odore della paura delle donne, lo stesso a ogni latitudine, in ogni língua, per ogni colore di pelle. Lei esita, dà un’occhiata di sbieco all’imputato attorniato dalle guardie di sicurezza, prende fiato e parla: «Mi hanno malmenato, mi hanno costretta ad aprire i vestiti, a mostrarmi, e poi…». E poi scoppia a piangere, Florence, perché la vergogna ë troppa per una ragazza di diciotto anni che durante l’interrogatorio di novembre raccontò di avere perso la verginità li, in quel capannone dove era stata portata a forza, predata insieme a un centinaio di sventurati che camminavano nel deserto per arrivare in Libia e imbarcarsi verso l’Europa. Rapiti e torturati finché i familiari non pagavano il riscatto per la libertà, se cosi si può chiamare il prosieguo della disperata marcia nel deserto. «Dopo avermi immobilizzata a terra – dice – mi hanno buttato in testa della benzina provocandomi un forte bruciore al cuoio capelluto, al viso e agli occhi. Successivamente, non conten- ti, i tre, a turno, hanno abusato di me. Non hanno fatto neanche uso di protezione, noncuranti della mia giovane età e del fatto che fossi vergine».
Il giudice le chiede anche questo, se davvero quella violenza atroce sia stata la sua prima volta. E la domanda arriva come un pugno nello stomaco, tradotta in dialetto tigrino dalla interprete, che abbassa gli occhi anche lei. Florence glissa, o forse ha un moto di orgoglio: «No – dice – la verginità l’avevo persa con il mio fidanzato che è rimasto in Etiopia. Ma le mie compagne di viaggio sono state violentate tutte».
Tra loro c’era anche una ragazza di nome Johanna, e a sentirne la storia non sai se definiria più coraggiosa o più impaurita delle altre. Avevano dovuto trascinarla fuori per i capelli tanto faceva resistenza, urlava, piangeva. «E cosi aveva fatto anche nel ca-pannone delle violenze, attiguo a quello della detenzione, dove era stata portata insieme con una sua compagna», racconta l’avvocato Carlo Emma, che difende tutti i superstiti. Non aveva voluto sottostare alle richieste: aveva picchiato, morso, scal- ciato. «Piuttosto ammazzatemi». L’altra era tornata, con i lividi e la vergogna. «Dov’è Johanna?», le avevano chiesto i compagni. «Johanna non torna», aveva risposto lei tra le lacrime. Per poi confidare a un cugino che aveva visto il suo corpo trascinato come un sacco, verso il deserto. Morta. A sentire tutto questo, il naufragio epocale del 3 ottobre sembra un epilogo dolce, e il mare un sudario pietoso sulle 366 vittime.
«Ti ricordo benissimo, per tutte le botte che mi hai dato», dice un sopravvissuto rivolto a Muhidin, al quale il procuratore aggiunto della Dda Maurizio Scalia e il sostituto Geri Ferrara contestano i reati di sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, tratta di esseri umani e violenza sessuale. Un’inchiesta ambiziosa, presa in mano dalla Direzione distrettuale antimafia che intende ricostruire le rotte internazionali di una moderna tratta degli schiavi. «Alcuni di noi sono stati picchiati con manganelli, appesi con la catena, sottoposti a scariche elettriche», raccontano tutti a porte chiuse, confermando le accuse contro il somalo, ripercorrendo un mese di terrore. «Hanno utilizzato il nostro cellulare per chiamare i nostri familiari e chiedere un riscatto che andava dai 3300 ai 3500 dollari per ognuno di noi». Solo quando i soldi sono stati accreditati sui conti bancari, il gruppo ha ripreso la via del deserto. Per andare, in gran parte, verso la morte.

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