Guido Viale ricorda Mauro Rostagno
venerdì, 12 Giugno, 2015Così Guido Viale il 5 giugno a Genova, nel convegno su Mauro Rostagno al Teatro della Tosse:
Mauro Rostagno ha attraversato tutte le vicende sociali, politiche, culturali e spirituali che si sono sviluppate a cavallo degli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Se i giovani che a partire da oggi prenderanno possesso delle panchine della piazzetta intitolata al suo nome per trascorrere insieme le loro serate saranno spinti da quella targa a interrogarsi su chi è stato Mauro, è dalla sua vicenda biografica e non dalle ricostruzioni giornalistiche, e meno che mai dai libri di storia, che potranno capire che cosa siano stati quegli anni per chi li ha vissuti direttamente. Ma anche capire perché coloro che non li hanno voluti vivere in prima persona, pur avendone la possibilità e molteplici occasioni per farlo, o hanno poi deciso di rinnegare quel loro passato, o semplicemente di dimenticarlo, ne hanno stravolto la memoria e la rappresentazione fino a trattarli come un’epoca buia, segnata da sangue (che certo c’è stato), da stupidità (che è invece quella di chi non ha voluto o saputo entrare in sintonia con la propria epoca) o da illusioni (che sono invece il lato concreto, e produttivo di tanti cambiamenti positivi, dell’utopia e di una aspirazione a una vita diversa: quelle che ogni generazione che non vuole rinunciare a vivere il proprio tempo deve saper riprendere in mano).
Mauro aveva meno di vent’anni ed era già segretario della Federazione Giovanile socialista di Torino: il contrario esatto di un burocrate; già allora creativo ed “estremista” come è stato per tutto il resto della sua vita. Pochi anni dopo lo ritroviamo operaio alle linee di montaggio dell’Autobianchi di Milano; e poi, studente nella neonata facoltà di Sociologia dell’Università di Trento, dove si è subito affermato come il riferimento obbligato (il leader, li chiamavano allora, come oggi, i media) del movimento studentesco della città: il più innovativo, spregiudicato e creativo di tutto il ’68; quello che aveva portato in Italia il pensiero dei situazionisti (quelli che animeranno di lì a poco la grande rivolta del maggio francese) e l’esperienza di una “controuniversità” o Università Negativa, fucina di una cultura alternativa. Dal movimento studentesco alla lotta operaia: Mauro è stato uno dei fondatori e degli ispiratori (o leader) di Lotta Continua, la più creativa, spontanea e informale tra le organizzazioni della sinistra extraparlamentare degli anni ’70: un’organizzazione tenuta insieme in modo strettissimo non da una dottrina o da una ideologia, ma da un sentimento (o uno “stato d’animo”, era stato detto) di profonda condivisione di una sorte che ci accomunava a tutti gli sfruttati e gli oppressi, ma anche a tutti i ribelli del mondo; tanto che ancora oggi molti dei suoi appartenenti, quando capita loro di ritrovarsi, pur nella diversità delle strade imboccate da allora, si riconoscono immediatamente in quel comune sentire di un tempo. In Lotta Continua Mauro aveva diretto o partecipato per un certo periodo alla redazione dell’omonimo giornale, prima settimanale e poi quotidiano; aveva organizzato l’intervento dell’organizzazione in alcune fabbriche del Milanese, e organizzato diverse occupazioni di case: prima a Milano e poi a Palermo, dove si era in seguito trasferito; quest’ultima culminata con l’occupazione della Cattedrale da parte di centinaia di donne e di famiglie di occupanti. Ma aveva anche lavorato all’Università di Milano e di Palermo come ricercatore, perché, Mauro è stato sempre un osservatore acuto e innovativo della società italiana e della sua evoluzione.
Poi, quando i movimenti degli anni settanta avevano cominciato a dare chiari segni di ripiegamento, Mauro era stato uno dei primi a prenderne atto e ad adoperarsi per cercare nuove strade e nuovi percorsi da condividere con chi gli era stato compagno di lotta. Ne era nato Macondo, un fantastico e immenso locale di Milano, uno spazio aperto alle esperienze più diverse, dove reduci delusi e sfiancati dalla loro partecipazione alle passate lotte potevano ritrovarsi per confrontarsi e darsi una ragione del loro impegno e della loro sconfitta; ma dove potevano incontrarsi anche con chi di quei movimenti non aveva mai fatto parte perché aveva seguito una strada diversa o parallela, che era quella della cultura underground o “di strada”, a cui Mauro era sempre stato attento, come era attento e curioso della evoluzione della musica, della letteratura, del costume. A Macondo si incontravano tutti, vecchi, adulti, ragazzi e bambini, sobri e scoppiati, donne e uomini, ma anche le prima manifestazioni dei movimenti lgbt,. Ed è in nome della lotta contro la trasgressione e la droga (cioè della persecuzione di chi si faceva uno spinello: le droghe pesanti non erano ammesse) che Mauro sarebbe stato arrestato e l’esperienza di Macondo chiusa. Alla sua riapertura si era trasformata in un libero e aperto tempio dei seguaci di un guru indiano del tempo, Bagwan Shri Rashnijsh (detti allora arancioni, per il colore dei loro abiti): per molti un’esperienza spirituale catartica, legata ad una profonda fisicità fondata sull’esplorazione del proprio corpo e delle sue potenzialità, in cui molti, in quegli anni, andavano cercando un’alternativa alle forme più oppressive o fallimentari della tradizione occidentale. Questa conversione aveva poi portato Mauro, la sua conpagna Chicca e la sua figlia Maddalena direttamente a Poona, in India, nell’ashram del suo guru, da cui sarebbe tornato per fondare in Sicilia la comunità di Saman – eretica rispetto all’ortodossia arancione, tant’è che si vestivano di bianco – insieme a Francesco Cardella: un personaggio che probabilmente è stato all’origine di molti dei guai successivi in cui sarebbero incorsi sia Mauro che la comunità di Saman.
Ma ben presto, senza rinnegare nessuna delle sue pratiche e dei suoi riti, Saman sarebbe stata trasformata da Mauro in una comunità di recupero: non solo di tossicodipendenti, ma di tutti i tipi di disagio patiti da persone sfiancata da una società post-sessantottina sempre più chiusa alla creatività e sempre più succube della cultura conformista della “Milano da bere”: l’incipiente berlusconismo.
L’ultima fase della vita di Mauro è stata dedicata alla lotta e alla denuncia della mafia e del malgoverno (vivendo a Trapani non avrebbe potuto fare altrimenti) attraverso le trasmissioni di una TV locale: un successo di ascolti straordinario, una prova di acume straordinario nell’analizzare gli intrecci tra mafia e società, ma anche una grande prova di coraggio, perché Mauro era perfettamente consapevole di essere sempre di più nel mirino delle cosche che combatteva. Che infatti lo hanno ucciso, in una forma così plateale che nemmeno un cretino avrebbe potuto pensare a qualcosa di diverso da un omicidio di mafia. Cosa che hanno invece pervicacemente fatto gli inquirenti per vent’anni, coinvolgendo progressivamente in questi depistaggi, nel modo più osceno, prima i suoi ex compagni di Lotta Continua, poi i suoi collaboratori di Saman, per finire con i suoi affetti più cari, a partire dalla moglie Chicca, finita per mesi in carcere sotto l’accusa di essere stata la mandante del suo assassinio.
Oggi abbiamo intitolato una piccola piazza alla sua memoria. E’ il primo riconoscimento pubblico dei meriti straordinari di un uomo che è stato vittima della mafia, senza che per anni, a lui come a Peppino Impastato, si sia voluto riconoscere quel ruolo come causa del loro assassinio. Ma va detto che Mauro non avrebbe mai potuto diventare quel combattente della mafia così acuto, ma anche così brillante, creativo e popolare, se non avesse avuto dietro alle spalle, pur nella sua breve vita, un patrimonio di esperienze così ricco come quello che attraversa tutta la sua biografia. E’ questo che, a quasi cinquant’anni dall’inizio di quelle vicende, la società italiana non sa e non vuole ancora riconoscere, perché non ha saputo e non sa fare i conti con quella che per un decennio ha rappresentato una vera alternativa, perseguita e praticata in Italia e nel mondo, da milioni di uomini e di donne, di lavoratori, di studenti, di disoccupati, di carcerati, di giovani e di vecchi, di intellettuali e di operai: un’alternativa allo squallore della condizione a cui ci ha ridotto invece la strada imboccata da quelle classi dirigenti che i movimenti degli anni settanta li hanno combattuti, allora con le bombe, con le infiltrazioni dei servizi segreti e con le calunnie; oggi con un uso criminale della crisi. Questa vicenda postuma non riguarda solo Mauro. Anche a Peppino Impastato combattente e vittima della mafia come lui, la società non ha voluto e non vuole riconoscere ancora oggi il posto che gli spetta nella memoria collettiva. E andando al di là dell’ambito specifico della lotta contro la mafia, un oblio ufficiale analogo ha cercato di ricoprire la memoria di un personaggio straordinario come Alex Langer, altro protagonista ed emblema di quegli anni e di quelle battaglia, a cui continua a venir negata l’intestazione di una piazza o di una via, che dovrebbe invece esserci, per lui come per Mauro e per Peppino, in tutte le città e i paesi d’Italia. E’ la memoria e la riabilitazione collettiva degli anni 70 quello che si vuole negare e cancellare. Per questo oggi l’intestazione di questa piazza a Mauro Rostagno può e deve essere un primo passo per riaprire, in modo critico e costruttivo, questo capitolo. Guido Viale
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