Michele Dzieduszycki
domenica, 29 Novembre, 2015Dieci anni fa. Moriva Michele Dzieduszyki, in un ospedale romano, il San Giovanni. Giornalista storico dell’Europeo, dove l’avevo cominciato a conoscere nel 1986. Ma giornalista è un po’ riduttivo per uno come Michele.
Intanto aveva quel nome polacco che si pronuncia seduceschi e per imparare a scrivere il suo cognome esattamente bisognava applicarsi. Tutte quelle consonanti (sette) contro poche vocali (cinque).
Poi c’era il giornalista. Ho passato una decina d’anni in una stanza con lui, prima in via della Mercede e poi a piazza Indipendenza. Eravamo prima uno accanto all’altro, poi dirimpettai. Così ho potuto apprezzarlo sotto ogni latitudine. Intanto lui scriveva a macchina (c’erano allora le macchine da scrivere…) e non guardava la tastiera, scriveva di cultura e continuava a parlare con me o con Claudio Lazzaro o Lauretta Colonnelli (in via della Mercede), poi con Lazzaro o me a piazza Indipendenza.
Più che parlare le sue erano battute abbastanza feroci, forti, sapide, secche.
Era assai curioso del fare degli altri e un po’ riservato sul suo.
Colto è dire poco. Leggeva in varie lingue e le parlava anche. Quando partiva per un servizio era come vedere partire uno zio per chissà dove. Indossava il suo cappotto, prendeva l’ombrello e salutava.
Le telefonate col desk di Milano erano esilaranti. I suoi occhi brillavano spesso e s’indovinava che era contrario a quanto a volte gli suggerivano. Anche perché poi faceva di testa propria.
Grande giornalista? Certamente. A modo suo. Un libro postumo, “Pagine sparse”, pubblicato da Ibiscos grazie al certosino lavoro di Edith de Hody sua moglie, ne rende conto.
Ma un libro non ci ridà mai del tutto la persona.
La persona era un tipo straordinario, abbastanza bastian contrario, un po’ conservatore e un po’ rivoluzionario, assai tenace, spesso combattivo (ricordo il divertimento con cui partecipò ai due mesi di sciopero e di sommossa contro l’arrivo nel ’90 del nuovo direttore Vittorio Feltri, tenuto fuori della porta dell’Europeo per oltre sessanta giorni…). E inoltre caustico e spiritoso, come pochi altri.
Ma anche sbadato: una volta l’ho visto arrivare con due scarpe diverse. Avendoglielo fatto notare ci mandò gentilmente tutti a quel paese.
Il meglio lo dava negli incontri con i direttori. In quel momento arrotava perfino le sue erre, pronunciava non molte parole, metteva spesso in castagna quei personaggi che dirigono le redazioni.
Infine era anche un toscano, trapiantato da anni e anni, ma la verve della regione gli era restata nel sangue.
Quando chiuse l’Europeo, a metà degli anni ’90, quei gentiluomini della Rizzoli lo considerarono un uomo da buttare. A degli analfabeti irriconoscenti cosa poteva mai servire uno come Michele Dzieduszyki? Allora aspettando la pensione si era messo a collaborare con il Venerdì di Repubblica e con qualche altra testata. Lo incontravo per strada. Continuava a fare osservazioni come quando eravamo in redazione insieme. Osservazioni sul presente, che era (ed è) oggettivamente difficile.
Mi toccò di alzare la voce con la direzione del San Giovanni quando stava morendo. Lo tenevano in condizioni pessime, nonostante le proteste dei familiari e di Edith, senza alcun riguardo per la persona che ci stava lasciando. Così va il mondo. Un mondo in cui la riconoscenza è merce rara, il r ispetto ancor meno. Ciao Michele.
p.s.: Dimenticavo, è girata nei giorni scorsi una foto della redazione dell’Europeo ai suoi ultimi giorni di vita. L’ha fatta Oliviero Toscani, è una bella foto. Michele però non c’è. Era lì ma non volle partecipare. Pensò che fosse una mezza buffonata piazzarsi di fronte a Toscani…
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