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Goffredo Fofi e “il telefilm sulla bomba”

Il Sole 24 ore 1 aprile 2012

Il telefilm della bomba
Marco Tullio Giordana non è riuscito a fare, nonostante i mezzi, un lavoro decente su Piazza Fontana.

Un male comune…

di Goffredo Fofi

Rimando volentieri alla più saggia delle possibili stroncature politiche del film di Marco Tullio Giordana, scritta qualche giorno fa da Corrado Stajano sul «Corriere della sera». Le incongruenze e gli opportunismi che segnano la ricostruzione della strage di piazza Fontana e i suoi retroscena, operata dal regista con i suoi due sceneggiatori (già autori con lui di un film non eccelso ma onesto su illusioni e sconfitte della generazione del ’68, La meglio gioventù) a partire da un libro dove le illazioni dominano, vi sono elencati con ferma convinzione e non scivolano nell’opinione ma si attengono al concreto dei fatti dimostrati e dimostrabili. Piuttosto che lanciarci nelle diatribe sul vero e sul falso e sul probabile che il film sta scatenando, per la maggior parte opinabili, diciamo subito che il film in sé non merita molta attenzione né molto riguardo e che a noi preme, da critici, rilevarne i limiti in quanto film, e più che i limiti la sostanza e l’idealità della fattura.

Invece che di “romanzo” e di film bisognerebbe, per cominciare, parlare di «docufiction» o di «telefilm» dei più rozzi, nonostante i mezzi a disposizione. E bisognerebbe anzitutto fare il paragone con le altre ventate non di televisione ma di cinema detto politico presenti nella nostra tradizione. Il neorealismo e la commedia o tragedia degli anni del boom e successivi furono in presa diretta su un presente da raccontare scavare discutere, e quando fu possibile, dal 1959 in avanti, vennero tentate anche operazioni di ricostruzione storica di grande portata (dopo La grande guerra, dopo Tutti a casa) dettate dal bisogno di spiegarsi e spiegare le radici del presente. Ho visto più volte un film su un episodio di estrema delicatezza nella nostra storia, Il processo di Verona, diretto da Lizzani e scritto da Pirro, ammirandone ogni volta di più la precisione e la misura. E ho visto, anche questo con il massimo interesse, il lavoro televisivo francese in più puntate di Olivier Assayas sul terrorista Carlos, e cioè su argomenti almeno altrettanto difficili di piazza Fontana, più vicini a noi e perfino più scabrosi da raccontare. Ci si chiede dunque come mai il cinema e la televisione italiana non siano in grado di proporre altro che panettoni da povero pamphlet giornalistico, al posto di un buon cinema e -perché no, se altrove è possibile? – di una buona televisione. E duro è individuare colpe che riguardano alla fine un po’ tutti – una complicità molto diffusa, benché diversificata – ma in primo luogo i nostri media maggiori. Il cinema politico non è servito, in Italia e, mi pare, neanche altrove, a migliorare la coscienza civile degli spettatori, ma semmai, a seconda delle parti, a sollecitare le loro false coscienze di “buoni” in un mondo di “cattivi”. Ma come è stato possibile che, quindici-vent’anni dopo i fatti (una dittatura, una guerra mondiale, due anni di guerra civile…) il nostro cinema riuscisse a dare dei grandi film civili, e che a più di quarant’anni dagli anni più caldi della nostra storia democratica non sia ancora possibile raccontare la crisi espressa e provocata dal ’68 con uno sguardo sufficientemente limpido, sia pure non di maggioranza? Non ponendosi, come pretende ipocritamente la televisione, e come è impossibile fare, «al di sopra delle parti». Com’è che artisti, intellettuali e profe ssionisti delle comunicazioni di massa, dei settori più ufficiali di esse, non riescano mai 0 quasi mai a raccontare degnamente il tempo passato e a essere all’altezza dei problemi di questo, che dei primi ha ereditato il peggio? Com’è possibile che ci si possa accontentare di parodie di ricostruzione storica come questa, da opera dei pupi, da filodrammatica e da sceneggiata, da museo delle cere, da gara paesana di imitatori, tra santini e macchiette e tra opposti buoni e i  morti non possono più parlare, i vivi che sanno tacciono, i “servizi” – nazionali e internazionali – continuano, come hanno sempre fatto, a insabbiare, a inquinare, a manovrare, i politici a preferire la retorica alla persuasione. E i giornalisti e gli sceneggiatori a scrivere, i registi a filmare, perché, si sa, lo spettacolo deve andare avanti.

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