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Brescia, uno dei 102 feriti della Strage: ecco perché voglio pagare le spese del processo

BRESCIAOGGI, 28 MAGGIO 2012
Lettera al direttore

Strage. Ecco perché pagherò le spese

di Roberto Cucchini (Uno dei 102 feriti di Piazza Loggia)
Egr. dottoressa Cancellieri, oggi ritorna a Brescia in qualità di ministro degli Interni, in rappresentanza del governo e, penso, delle istituzioni. Viene per condividere con noi una memoria che definirei «difficile», perché segnata da una dolorosa constatazione: dopo trentotto anni, sulla strage di piazza della Loggia, non s’è fatta né verità né giustizia. Da qui nasce un sentimento di amarezza ma anche, mi permetta, di profonda indignazione.
Quando un sistema, le sue istituzioni, o alcune di esse, non sono state in grado, dopo circa quarant’anni – il tempo di due generazioni! – di riconoscere ed affermare uno dei diritti fondamentali sul quale si è costruito il patto tra i cittadini e lo Stato, quello alla giustizia, viene fortemente leso non solo il sistema di garanzie democratiche su cui una società fonda il proprio vivere civile, ma qualcosa di più profondo: un sentire comune, l’idea che i responsabili di un odioso delitto devono essere sanzionati. Non una verità giudiziaria purché sia, una sorta di «mezza vendetta» per soddisfare le pulsioni violente che ognuno si porta dentro, ma un atto che renda limpide, intelligibili le responsabilità individuali, che risarcisca memoria e diritto per andare, per davvero, oltre. Lo stigma di un delitto impunito, come è nel nostro caso, rimane invece indelebile sul volto sfigurato di chi è stato delegato non solo a rappresentare ma ad inverare i principi costituzionali.
Più passano gli anni, più mi allontano con l’età da quella piovosa mattina del 28 maggio del ’74, più vivo il ricordo di tale fatto con profondo malessere. Sento, anno dopo anno, la vacuità di certi interventi pubblici che sotto un’abile retorica, nascondono il senso di un’impotenza, la consapevolezza di una sconfitta. Almeno così li vivo. Può darsi che sia io a proiettare su tali discorsi il senso della mia frustrazione, della mia delusione, forse anche della mia rabbia, ma questi sono oggi i miei sentimenti. E penso di non essere il solo a provarli.
Trentotto anni di indagini e processi, non hanno portato sul piano giudiziario ad alcun risultato. I vari imputati, nei diversi procedimenti, sono stati tutti assolti per mancanza di prove decisive. Nessuno di loro ha testimoniato in aula: i loro volti e le loro storie sono state evocate dai loro difensori. Da altri abbiamo ascoltato parole oblique, che nascondevano, omettevano, depistavano, che ci rubavano giorno dopo giorno, udienza dopo udienza, il desiderio di sapere, di conoscere, di capire i tanti, troppi «perché». Ho sentito la distanza incommensurabile tra quell’aula del tribunale di Brescia e quella di una qualche cittadina sudafricana dove si erano svolte le udienza della commissione per la verità e riconciliazione, dove i responsabili di orrendi delitti guardavano negli occhi le loro vittime, o i loro parenti. Qui, in questo civilissimo Paese, niente di tutto questo.
I volti che conosciamo, sono solo quelli dei nostri morti e di tutti coloro che erano lì, in quella piazza, quel giorno. Io so che la strage è un delitto «fascista e di Stato»: fascista, per la natura di tale atto e l’ideologia che ne definiva la strategia eversiva, ma anche di Stato, per la corresponsabilità di alcuni suoi rappresentanti nell’aver operato contro l’accertamento dei fatti, dagli attimi immediatamente successivi allo scoppio della bomba. A Brescia, come in tutti gli altri episodi che hanno illuminato di dolore e lutti la lunga «notte della Repubblica», nessuno ha pagato. Qui vi vedo l’origine di una frattura tra le istituzioni e quel sentire comune di cui dicevo. Le troppe verità mancate non possono non determinare l’indebolimento di tale rapporto, provocare un vulnus, il venire meno di una relazione di fiducia. Non sta forse qui, almeno in parte, la ragione della crisi del nostro sistema democratico, dei suoi fondamenti istituzionali ed etici?
Potrei consolarmi col soddisfare questa legittima esigenza di giustizia, come molti mi suggeriscono, pensando che c’è in fondo una «verità storica». Ma non ne sono poi tanto sicuro, dovendo riconoscere come davanti ai troppi «revisionismi» in atto, piegati ad un uso pubblico, politico, strumentale della storia, nessuno potrà mai garantire che ciò che oggi è acquisito, domani, o tra dieci o vent’anni, quando noi non ci saremo più, lo sia ancora. E’ la stessa domanda che si fece Primo Levi. Pessimista? Forse. A meno che una diversa coscienza civile, un maggior senso di responsabilità, una più matura partecipazione dei cittadini al destino comune, così come ad un inveramento, nella legge e nella prassi sociale e politica quotidiana, dei principi costituzionali, faccia di questo un Paese moralmente rigenerato.

L’ultima sentenza d’appello si è conclusa con la richiesta rivolta alle parti civili di risarcire le spese processuali. Poi, gli interventi del presidente della Repubblica e del Governo hanno «rimediato» ancora una volta ad una legge per lo meno discutibile, se non insufficiente. Ma proprio per questo ho deciso di rinunciare a tale disponibilità istituzionale, dichiarandomi «obbediente» alla norma: pagherò di tasca mia quanto essa prevede mi spetti. Con questo atto voglio testimoniare, come parte offesa, il mio personale biasimo per una «verità tradita». La sentenza riguarda il singolo cittadino coinvolto nel procedimento: è lo Stato che attraverso l’autorità giudiziaria esprime un giudizio. E quando l’esito è negativo, come in questo caso, quello stesso cittadino ha il dovere di esprimere il suo sdegno nelle forme che ritiene più consone. Le istituzioni non hanno nessun obbligo di risarcirmi per un loro errore (una legge sbagliata): devono semplicemente applicarla. Ai parlamentari che invece hanno proposto di pagare loro le spese, mi sento di dire: non è il vostro compito. Avete solamente il dovere di cambiarla. E questo non l’avete fatto.

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