Informazioni che faticano a trovare spazio

Presentata al procuratore Capaldo la richiesta di aprire un processo contro gli ex nazisti di Colonia Dignidad in Cile

Si chiama Colonia Dignidad, durante la dittatura Pinochet questo villaggio nato nel 1961 e “militarizzato” da emigrati tedeschi tra cui ex nazisti è stata teatro di internamenti di oppositori e di omicidi. In Cile sono stati già condannati in primo grado alcuni ex militari cileni golpisti e alcuni ex nazisti tedeschi, come Gerhard Wolfgang Mucke Koshnitzje e Karl Johann Van Der Berg Schurmann.

Altri tedeschi implicati in quelle vicende sono ripararti in Germania come , (è tornato nel 2009) e Georg Packmor con sua moglie Lotty.

La denuncia nei confronti di questi ex nazisti riguiasrda in poarticolare l’eliminazione del cittadino italiano Giovanni Maino. La denuncia è stata presentata oggi dall’avvocato Andrea Speranzoni, difensore di parte civile della famiglia Maino, al Procuratore Aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo. La denuncia s’intitola “Nuovi elementi sui componenti “Colonia Dignidad”.

In particolare si prospetta la deposizione davanti al PM dell’avvocatessa tedesca Petra Schlagenhauf e del giurista americano Jan Stehle. L’Avv. Schlagenhauf ha iniziato in Germania un processo contro Harmutt Hopp, cittadino tedesco ai vertici di “Colonia Dignidad” rifugiatosi nel 2009 in Germania per evitare di essere processato in Cile.

Si riuscirà a far aprire un processo in Italia contro questi assassini nazisti al soldo di Pinochet? Pensate: i Packmor sono accusati di aver “rubato” anche 14 auto sottratte ai loro prigionieri. I corpi di molti degli eliminati, quando non gettati con i prinmi voli della morte di fronte alla località marina di REocas de Santo Domingo, sono stati nascosti in tomba alle pendici della cordigliera.

Qui di seguito l’intervista che Speranzoni ha rilasciato ieri all’Huffington Post:

Andrea Speranzoni, uno degli avvocati difensori delle vittime, ce lo racconta così:

Il processo di Roma sui desaparecidos italiani, vittime dell'”Operazione Condor”, costituisce una tappa importante per la storia giudiziaria del nostro Paese. Le vittime sono cittadini italiani residenti all’epoca dei fatti in Cile, Argentina e Uruguay, che appartenevano a movimenti di matrice cattolica o socialista e si opponevano alle dittature dell’epoca. Alcuni erano sindacalisti; altri impegnati in battaglie per la giustizia sociale e per l’affermazione dei principi di democrazia e di uguaglianza. Leggere fra le carte d’indagine le loro storie non può non far venire in mente il carattere universale dei principi che li animavano e quanto scritto anche negli articoli 2 e 3 della Costituzione repubblicana italiana. Vi si afferma, infatti, che in democrazia sono garantiti i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità; che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica e di condizioni economica e sociale; e che le diseguaglianze sostanziali debbono essere livellate. Tali principi personalistici ed egualitari, estranei a qualsiasi concezione autoritaria, animavano il loro agire quotidiano, i loro pensieri e, prima ancora, il loro sentire.

E chi sono gli imputati?

Gli imputati chiamati a rispondere dei reati a titolo concorsuale sono 34. Erano inseriti in diversi modi dentro le strutture amministrative e poliziesche del Piano Condor, un’operazione segreta gestita dai Servizi di Intelligence dei Paesi latino-americani e nata su input del Colonnello dell’Esercito cileno di Pinochet, Manuel Contreras Sepúlveda. Nel 1975 Contreras era a capo della Dirección de Inteligencia Nacional (Dina) e nel mese di ottobre invitò i pari grado degli altri Paesi a partecipare alla cosiddetta Prima Riunione di Lavoro dell’Intelligence Nazionale. La riunione si tenne tra il 25 novembre e il 1° dicembre di quell’anno, con l’intenzione di costituire un coordinamento efficace dei servizi di Intelligence. Il Giudice spagnolo Baltasar Garzón ha correttamente affermato che la Dina era un’organizzazione al di fuori della struttura organica istituzionale delle Forze Armate, alle dipendenze dirette di Augusto Pinochet, che ebbe lo scopo di attuare una serie di attività criminali quali sequestri, torture, omicidi o sparizioni. Un altro magistrato che negli Stati Uniti si occupò dell’attentato contro Orlando Letelier, il procuratore Ernest Lawrence Barcella, affermò che “la Dina, in quanto organizzazione, cospirò allo scopo di commettere attentati terroristici in Spagna, Francia, Italia, Portogallo, Stati Uniti d’America, Messico, Costa Rica, Argentina, Cile e altri Paesi“. Dentro questo contesto criminale operarono vari soggetti, inseriti in una catena di comando determinata. Altri furono reclutati nel corso di singole appendici dell’Operazione. Secondo quanto riferito dal neofascista italiano Vincenzo Vinciguerra, membro del gruppo Avanguardia Nazionale, l’assassinio di Carlos Prats era stato realizzato nell’ambito del Piano Condor. Anche il Governo americano, nel corso delle indagini sul caso Condor, ha fornito importanti informazioni. Nel settembre del 1996 si venne a sapere, attraverso alcuni documenti, che la CIA era a conoscenza già dal 1976 dell’esistenza di questi organismi repressivi del Cono Sud. È in questa cornice – che forse può apparire fantapolitica, ma che è esistita e ha portato alla perpetrazione di crimini e violenze indicibili – che si collocano le storie delle persone colpite. E attraverso le loro storie si cercherà di scrivere una pagina giudiziaria importante, di cui giudici e avvocati saranno interpreti.
Ti sei occupato anche dei crimini commessi dai nazifascisti in Italia: gli eccidi che hanno sterminato intere comunità come Marzabotto, Montesole, Casalecchio o i luoghi del dolore dell’Appennino tosco-emiliano. Che valore hanno questi processi, nella tua esperienza, per le vittime?

I processi sui crimini nazifascisti celebrati in Italia dopo il rinvenimento dell’archivio di fascicoli insabbiati nel 1961, ribattezzato “Armadio della Vergogna“, ha rappresentato per le vittime una riappropriazione della propria storia. Nei crimini contro l’umanità, infatti, la vittima prova l’esperienza traumatizzante di non appartenere più al mondo e alla comunità. I processi, e dentro i processi il momento del racconto pubblico costituito dalle testimonianze, hanno rappresentato la formula di una ricomposizione. Cercare giustizia, da parte delle vittime, è stato ed è comprendere e sconfiggere lo sguardo del dottor Panwitz di cui scrive Primo Levi in Se questo è un uomo. Nei crimini gravi, non intercorre uno sguardo tra autore e vittima. L’atto di giustizia spiega l’assenza di questo sguardo e la supera.
Che valore hanno questi processi per la storia, per il nostro Paese?

Il nostro è un Paese che non ha il vizio della memoria e in cui non è così scontato sentire una parola interamente e integralmente indignata e offesa per l’enormità dei crimini commessi anche sul nostro territorio nazionale dal fascismo e dal nazismo. La storia dei fatti che il processo penale ricostruisce, con un proprio sistema di regole, non è quella con la esse maiuscola; è fatta di tante testimonianze, di tante storie individuali che formano un mosaico collettivo. Un mosaico che però parla, a noi tutti.
Che funzione svolge la memoria all’interno di un processo?

Dentro un processo la memoria nasce dal racconto individuale dei testimoni, dal loro atto di ricordare. Ricordare spesso esperienze dolorose e di sottrazione di affetti familiari e di comunità. Il gesto del ricordare – come ci suggerisce lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano nel Libro degli abbracci – richiama l’azione del ritornare a sentire ciò che il cuore conserva come fosse uno scrigno, re-cordis, appunto.
Cosa significa per te, in quanto avvocato, partecipare al Condor?

Partecipare come difensore di parte civile al processo per l’Operazione Condor mette in movimento molte cose dentro di me. Sia da un punto di vista professionale che personale. Mette in gioco scelte difensive che già in passato ho avuto la possibilità di realizzare in processi per reati di terrorismo interno e di eversione e per i processi relativi ai crimini nazifascisti del 1944. Direi però che dietro a queste biografie e dietro ai volti delle vittime trovo legami e strade che mi parlano del presente e che offrono chiavi di lettura per comprenderlo. La domanda di fondo è: come è stato possibile tutto questo? Secondo il rapporto della Commissione Nazionale di Verità e Riconciliazione le vittime della Dina furono quasi 1800.
Oggi pomeriggio, alla Fondazione Lelio Basso di Roma, discuterai insieme ad altri dei rapporti fra ex appartenenti all’esercito nazista e dittature sudamericane. Da “Colonia Dignidad” all’Operazione Condor. Ci parli di qualcuno di loro?

Il riutilizzo di ex appartenenti all’esercito nazista in settori di pianificazione o in settori operativi della cosiddetta “macchina del terrore” è una costante che si è riscontrata in numerosi scenari delle dittature latino-americane. Ricordiamo il caso dell’ex ufficiale delle SS Klaus Barbie, fuggito in Bolivia nel 1951 con il nome di copertura di Klaus Altmann, la tormentata vicenda che riguardò la sua estradizione in Francia e il processo penale a suo carico. Barbie venne individuato già nel 1974, ma fu estradato in Francia solo nel 1983 e condannato all’ergastolo nel 1987. Le condotte contestategli riguardavano arresti, torture, fucilazioni, deportazioni e in particolare l’ordine di rastrellamento compiuto all’interno di un asilo di Izieu, nel corso del quale 43 bambini erano stati arrestati e deportati ad Auschwitz. Fu condannato per 373 omicidi: la condanna giunse 43 anni dopo i fatti. Barbie-Altmann aveva goduto dal 1951 di importanti protezioni.
A Colonia Dignidad, il luogo di tortura gestito dalla Dina cilena retta da Manuel Contreras, erano confluiti diversi ex nazisti e fascisti…

Su Colonia Dignidad il Processo Condor presenta molta documentazione interessante. Colonia Dignidad è un villaggio cileno della provincia di Linares fondato da un gruppo di immigrati tedeschi nel 1961. Il villaggio ebbe delle caratteristiche tipiche di una zona militare inaccessibile: era dotato di un sistema molto severo di protezione e di controllo degli accessi. Il Centro Wiesenthal ha presentato ampia documentazione che testimonia come Josef Mengele, tristemente noto per gli esperimenti sulle “cavie umane” durante l’Olocausto, sia transitato in questo luogo. Durante gli anni della dittatura di Pinochet servì come centro di tortura, inserito a tutti gli effetti nella Dina. Il caso della sparizione e dell’omicidio del cittadino italiano Juan Bosco Maino Canales si svolge in parte proprio a Colonia Dignidad, in parte in un luogo che si chiamava Villa Grimaldi e che fungeva anch’esso da Centro clendestino di detenzione. In quel contesto la magistratura cilena ha accertato peraltro la commissione di gravissimi abusi sessuali su minori di cui si rese responsabile, fra gli altri, il fondatore di Colonia Dignidad, Paul Schäffer, ex ufficiale medico della Luftwaffe, condannato a 20 anni di reclusione e morto nel penitenziario di Santiago nel 2010.
Walter Benjamin scriveva che “esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione“. Sembra che ci troviamo in questo appuntamento. Il processo Condor cui stiamo partecipando ci obbliga a convocare assieme, in una stessa costellazione, i crimini di guerra nazifascisti e i genocidi delle dittature sudamericane. In che modo si può nutrire una cultura della vigilanza, perché tutto questo non accada mai più?

La cultura della vigilanza deve muovere da un presupposto: la consapevolezza che ciò che è accaduto può ri-accadere, magari in altre forme, in altri contesti geografici o anche in forme simili a quelle già storicamente sperimentate. Chi infatti ha attuato questi crimini che offendono l’umanità intera non è un’entità malvagia astratta: si tratta invece di uomini, di scelte operate da alcuni di loro. Alla base di tutto c’è la pratica della cancellazione dell’umano, l’assenza di uno sguardo empatico sull’altro. Questi passaggi possono facilmente ripetersi, possano trovare un comodo alibi nella miseria economica, nel razzismo, nel timore dell’altro e del diverso.

Le risposte da creare e da proporre in una dimensione sia pubblica che privata sono plurime: il racconto dei testimoni è fondamentale, ma poi ci sono i progetti educativi, un modo approfondito di fare informazione, l’attenzione a ciò che succede attorno a ognuno di noi e il dotarsi di strumenti conoscitivi ampi. Un ruolo importante lo gioca anche il processo penale, che permette di salvare le microstorie dei singoli, pur nella distanza temporale che ci separa dagli eventi, e di ricostruire una memoria storica collettiva.

La consapevolezza del rischio che si riaffacci la disumanizzazione dell’altro non deve sfumare mai dentro di noi. Di questo le vittime dell’Operazione Condor ci parlano.
* Andrea Speranzoni è avvocato penalista del Foro di Bologna. Nell’ultimo decennio ha difeso numerose parti civili nei principali processi per crimini nazifascisti istruiti dopo la scoperta del cosiddetto “Armadio della vergogna”. Si è occupato inoltre di processi relativi all’eversione di destra e al terrorismo in Italia, difendendo i familiari delle vittime.

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