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La Francia degli anni ’60 e gli algerini. I miei ricordi

A proposito dei massacri del 1961 a Parigi con quasi quattrocento algerini gettati nella Senna e uccisi con la massima brutalità dalla polizia “teritoriale” francese, che Enrico Deaglio ha richiamato parlando sul “Venerdì” di Repubblica delle stragi, di oggi come di ieri.
Avevo vent’anni e stufo dell’università e del corso di laurea in lettere a Pisa sono finito a Parigi dove tra i vari lavoretti ho fatto anche quello di “peintre en batiment”, il modo specialissimo con cui i francesi indicano gli imbianchini distinguendoli dai “peintres” cioè i pittori che sono altra cosa.
E facendo quel mestiere ero un “manoeuvre”, un manovale, e gli altri come me erano tutti immigrati, di vari paesi ma in maggioranza maghrebini con una forte percentuale di algerini. Lavoravamo in un cantiere fuori Parigi dove sorgeva un grosso immobile in cui sarebbe andato il quartier generale della futura tv a colori.
Gli algerini erano tutti benbellisti, ammiravano Ben Bella e sarebbero rimasti assai male quando di lì a poco, nel ’65, Boumedienne avrebbe destituito Ben Bella arrestandolo e instaurando un regime militare vero e proprio.
Capitava così che passassimo molte ore gomito a gomito, ore in cui oltre ad imparare le parolacce nelle loro lingue ho anche appreso un mucchio di altre cose. Un algerino, anzi un cabilo, aveva simpatia per me e così finì che mi invitò a Barbès di domenica per mangiare il couscous con la sua famiglia e i suoi amici.
Al mio collega imbianchino mancavano parecchi denti sul davanti, stentava a spiegarmi perché. Poi un giorno cominciò a raccontarmi delle manifestazioni del 1961 e della feroce repressione che era scattata contro di loro. Mi parlò di Pont Neuf, il ponte degli innamorati e che Leo Carax ha poi immortalato nel film. Da quel ponte erano stati gettati giù come corpi morti, morti di cui disfarsi, parecchi algerini. Tutto qua. Il mio collega riferiva con calma tutto ciò, era materia fresca accaduta da pochissimo tempo (tre anni). Nessuno ne parlava allora a Parigi (e così sarebbe stato a lungo, fino al bel libro di Luc Einaudi), anche loro gli algerini ne parlavano poco e quando lo facevano era a bassa voce. Temevano ancora la “Territoriale” che erano circa ventimila uomini della polizia rimpatriati dall’Algeria mentre stava diventando indipendente. Quelli della “territoriale” facevano ancora retate di notte. Meglio non averci a che fare.
Gli algerini di allora erano in genere piuttosto laici, islamici sì ma senza esagerare. I cabili assomigliavano un po’ ai sardi e ai corsi. Avevano delle belle canzoni. Non erano integralisti, l’Fln era per loro un riferimento, erano operai all’estero, non spacciavano (almeno quelli che ho conosciuto allora), abitavano in città, non erano ancora finiti – sto parlando di mezzo secolo fa…- nelle orride banlieues.
Lo racconto per quel che vale, però era così. Poi dopo alcuni mesi insieme li ho lasciati alla loro vita di metro boulot dodo (e couscous alla domenica) ed io ho continuato per altre strade. Però ho conservato sempre un buon ricordo di quelle facce conosciute allora e quando in anni recenti si è scoperto che la Cabilia, la terra d’origine del mio collega senza denti, ospitava parecchie cellule salafite e che non era più la terra di cantanti straordinarie come Cheika Remitti nata a Sidi bel Abbès e morta a Parigi poco tempo fa, allora ho capito che un piccolo mondo da me conosciuto probabilmente era sparito per sempre insieme alle sue storie di brutalità subita e di orgoglio malriposto. Cose che capitano.

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