Informazioni che faticano a trovare spazio

Sul colonnello Bonaventura e sulla divisione Pastrengo

Sul colonnello Umberto Bonaventura e sulla divisione Pastrengo di Milano ecco due contributi, dal numero 55 del 2002 di  “Misteri d’Italia” la rivista online diretta da Sandro Provvisionato e da Repubblica del 1985 con un articolo di Guido Passalacqua. (nella foto Licio Gelli)

Questo numero monografico è dedicato a:

LA SCOMPARSA DEL COL. UMBERTO BONAVENTURA,

UOMO DEI MISTERI

Era stato il dirigente del SISMI – i servizi segreti militari – che per primo aveva materialmente ricevuto il dossier Mitrokhin, quindi colui che più di altri poteva attestarne l’autenticità e, soprattutto, dire se qualcuno avesse, in qualche maniera ed in qualche momento, frenato l’inchiesta sulla rete di spie sovietiche in Italia.

Per questo era stato convocato dalla commissione parlamentare, presieduta da Paolo Guzzanti (Forza Italia), che proprio sul dossier del funzionario del KGB è stata chiamata ad indagare.

Ma il col. Umberto Bonaventura, direttore dell’Ufficio analisi controspionaggio, terrorismo internazionale e criminalità organizzata transnazionale del SISMI, ex braccio destro del gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, non potrà più deporre davanti ad alcun organismo, parlamentare o no.

Il suo corpo, privo di vita, è stato trovato la mattina di giovedì 7 settembre 2002 riverso ai piedi del letto della sua abitazione romana. Bonaventura aveva 63 anni e – almeno stando alle versioni ufficiali – un infarto lo avrebbe stroncato nella notte. Non è il primo personaggio, legato ai servizi segreti, a morire da solo e in circostanze che amplificano i sospetti. Forse non sarà neppure l’ultimo.

Sul modo in cui il col. Bonaventura è morto è stata effettuata un’autopsia e l’ultima parola – almeno ufficiale – spetta alla magistratura.

A noi interessa capire bene chi era il col. Umberto Bonaventura. E che ruolo abbia avuto nei misteri d’Italia.

Al di là del contributo che Bonaventura avrebbe potuto dare alla commissione Mitrokhin (Guzzanti ha definito la sua perdita “un danno irreparabile”), con la scomparsa di questo ufficiale dei carabinieri alcuni dei più rilevanti misteri d’Italia sono destinati a rimanere tali.

Formatosi nella Divisione dei carabinieri Pastrengo – infarcita di militari piduisti – Bonaventura, all’epoca capitano, aveva indagato sulla strage di Peteano (31 maggio 1972, due settimane esatte dopo l’omicidio Calabresi), in particolare sul falso “memoriale” di Marco Pisetta, un ex operaio estremista, sempre a caccia di soldi, aderente alle Brigate Rosse. Il falso “memoriale” – che chiamava in causa Lotta Continua sia per il delitto Calabresi che per la strage di Peteano – era stato scritto da Pisetta, nella villetta segreta di Pochi di Salorni, vicino a Trento, ma sotto dettatura del col. Michele Santoro, all’epoca comandante della legione di Trento, che tre mesi dopo passerà al nucleo giudiziario di Milano.

Si erano adoperati a indirizzare le indagini contro Lotta Continua anche altri due ufficiali dei carabinieri, il col. Dino Mingarelli, comandante della legione di Udine – già implicato nel Piano Solo del gen. Giovanni De Lorenzo e nei depistaggi per la strage di Peteano – ed il col. Angelo Pignatelli, comandante del controspionaggio SID di Verona (all’epoca l’equivalente dell’attuale SISMI). Tutti, con Bonaventura, si ritroveranno nella Divisione Pastrengo.

Lo stesso Bonaventura si era recato a Trento, al seguito dei magistrati milanesi Colato e Viola, che avevano interrogato Pisetta.

Chi era stato a smascherare la provocazione contro Lotta Continua ordita dai carabinieri con la complicità di Pisetta? Proprio la struttura di controinformazione di Lotta Continua. L’organizzazione dell’estrema sinistra, guidata da Adriano Sofri, era così uscita da due inchieste in un colpo solo: strage di Peteano e delitto Calabresi. Nella seconda inchiesta Lotta Continua rientrerà, però, 16 anni dopo.

Ed è proprio 16 anni dopo che ritroviamo la figura di Umberto Bonaventura che nel frattempo ha fatto carriera: con il grado di tenente colonnello è diventato responsabile dello speciale nucleo antiterrorismo di Milano. E’ proprio Bonaventura che il 2 luglio 1988 raccoglie le prime confessioni di un ex operaio addetto all’antirruggine del reparto carozzeria della FIAT Mirafiori, ex militante di Lotta Continua, ex portantino, ex trasportatore, ex cuoco, ex giardiniere, ex iscritto al PCI, ex rapinatore: Leonardo Marino che diventerà il grande accusatore di Sofri, Bompressi e Pietrostefani – a quel tempo tutti ex di Lotta Continua, oggi condannati con sentenza definitiva a 22 anni di carcere proprio per il delitto Calabresi.

Ecco come sono andate le cose: dopo aver manifestato il suo “pentimento” umano ad un prete, don Regolo, parrocco di Bocca di Magra, il paesino vicino a La Spezia dove vive, e ad un ex senatore del PCI, il vicesindaco di La Spezia, Flavio Bertone, Leonardo Marino, consigliato dall’ex parlamentare, si rivolge ai carabinieri. Prima parla con il comandante della stazione dell’Arma di Ameglia, il maresciallo Emilio Rossi, il quale lo conduce dal cap. Maurizio Meo, responsabile della tenenza di Sarzana. Ed è proprio quest’ultimo ad avvertire Bonaventura.

La versione ufficiale – ribadita anche in corte d’assise durante il processo a Sofri e agli due imputati – riferisce che in quei 17 giorni in cui, di sera, Marino si incontrava con Bonaventura – che probabilmente veniva appositamente da Milano per raccogliere le sue “confessioni” – oggetto degli incontri sono soltanto le rapine che via, via il “pentito” confessa. Soltanto in seguito, quando si troverà davanti al dottor Ferdinando Pomarici della procura di Milano, Marino si deciderà – in lacrime – a confessare la sua partecipazione al delitto del commissario Calabresi e a fornire (“con grande fatica”) al magistrato il nome del suo complice (Bompressi) e dei mandanti dell’omicidio (Sofri e Pietrostefani).

In realtà quel “buco nero” di 17 giorni – durante i quali un ufficiale dei carabinieri interrogava un testimone senza mai verbalizzare alcunché come, invece, la legge impone – resterà segreto per oltre un anno. Fino al febbraio 1990 quando, all’udienza del processo per il delitto Calabresi, il maresciallo Rossi ed il capitano Meo raccontano tutto di quegli incontri a dir poco singolari. In quell’occasione accade un episodio curioso e molto significativo: il dottor Pomarici – che oltre ad aver condotto l’inchiesta contro i tre ex di Lotta Continua – nel processo è anche pubblico ministero, subito dopo la deposizione dei due carabinieri dice ai giornalisti di “cadere dalle nuvole”. In altre parole il magistrato inquirente conferma che Bonaventura ha “gestito” il “pentito” Marino al di fuori di ogni regola e senza mai informarlo.

Finita l’udienza del processo, però, anche Pomarici cambierà versione: i carabinieri, convocati come testimoni, lo avevano avvisato telefonicamente che avrebbero raccontato la verità in udienza. Lui si era limitato a dir loro di farlo pure ed aveva informato di quanto stava per accadere il capo della procura, Francesco Saverio Borrelli. Quindi Pomarici non era affatto “caduto dalle nuvole”.

Convocato in tribunale il ten. Col. Bonaventura ammette quei 17 giorni di incontri “faccia a faccia” con Marino senza che la magistratura ne fosse informata. Bonaventura racconta la sua versione: era andato tre volte a Sarzana per ascoltare Marino e poi lo aveva convinto a recarsi a Milano. Il “pentito”, però, si era limitato a parlare di “gravi fatti accaduti a Torino e a Milano” e della necessità di “liberare la sua coscienza, per rispetto dei suoi figli”. “Solo il 21 luglio – afferma ancora Bonaventura davanti alla corte – Marino parlò della sua responsabilità nell’omicidio Calabresi e lo fece davanti al dott. Pomarici”.

Ma c’è da chiedersi ancora dell’altro: è credibile che un ufficiale dei carabinieri, per di più responsabile del delicatissimo settore dell’antiterrorismo e che in quei giorni era impegnato nell’operazione che aveva portato alla scoperta del deposito d’armi delle BR in via Dogali a Milano, si sobbarchi, per più giorni, 400 e più chilometri di viaggio tra Milano e Sarzana, andata e ritorno, solo per ascoltare un ex militante di Lotta Continua che “vuole liberarsi la coscienza” e che al massimo confessa rapine commesse 16-17 anni prima?

Davvero è stato Marino a cercare i carabinieri?

Oppure sono stati i carabinieri a cercare Marino, ex militante di Lotta Continua, in seri guai finanziari?

Bonaventura non era comunque nuovo a comportamenti quanto meno disinvolti.

Dieci anni prima dei suoi abboccamenti con Marino, Bonaventura – che già si era occupato della morte di Feltrinelli (1972), del sequestro Sossi (1974) e della cattura di Renato Curcio e Alberto Franceschini (1974) – aveva lavorato fianco a fianco con il gen. Dalla Chiesa nelle indagini che avevano portato alla scoperta del covo di via Montenevoso (1 ottobre 1978), avvenuto cinque mesi dopo la drammatica conclusione del sequestro Moro.

Una scoperta molto importante che, oltre alla cattura di alcuni brigatisti di primo piano (Azzolini, Bonisoli, Mantovani), aveva permesso il ritrovamento di parte del “memoriale” di Aldo Moro, contenete le “confessioni” fatte dall’ex presidente della DC alle Brigate Rosse durante i giorni della sua prigionia.

Eppure anche quel covo è destinato a diventare un altro mistero. 12 anni dopo, nell’ottobre del 1990, infatti, proprio da quell’appartamento in via di ristrutturazione salterà fuori, nascosto dietro un tramezzo, la parte mancante di quello stesso “memoriale”, carte di Moro ancora più importanti delle prime.

Come mai quelle carte non erano state recuperate quando l’appartamento-covo delle BR era stato scoperto?

Il deputato del PCI, Sergio Flamigni, componente della commissione Moro, insospettito del recupero del tutto parziale del “memoriale”, rivolgendosi al magistrato che si era occupato di quel blitz si era sentito rispondere dallo stesso: “Abbiamo controllato quell’appartamento mattonella per mattonella. I carabinieri lo hanno letteralmente scarnificato”.

Il risultato di quella “scarnificazione” si potranno vedere 12 anni dopo. Essa non aveva certamente riguardato un semplice e banalissimo tramezzo dietro al quale, oltre al “memoriale” Moro, erano nascosti 40 milioni di lire in contanti e anche armi.

Di quell’operazione antiterrorismo del 1 ottobre 1978, decisamente riuscita a metà, si tornerà a parlare molti anni dopo. Per l’esattezza il 23 maggio 2000 quando Umberto Bonaventura – da anni ormai passato ai servizi segreti con il grado di colonnello – viene convocato davanti alla commissione d’inchiesta sul terrorismo e le stragi, presieduta dal sen. Giovanni Pellegrino.

E’ in quella sede che Bonaventura ammette candidamente un’altra sua “disinvoltura”.

Leggiamo insieme la parte del verbale dell’audizione di Bonaventura relativa proprio alla scoperta del covo di via Montenevoso:

BIELLI (DS): Su “La Repubblica” del 6 ottobre 1978 Giorgio Bocca scrive, in relazione al covo di via Monte Nevoso, che le carte di Moro furono esaminate da personalità politiche e militari prima dei magistrati. Cosa ne pensa di questa affermazione? Quali furono le disposizioni adottate subito dopo l’irruzione? Queste erano tali da impedire una tale evenienza?

BONAVENTURA. Il 1° ottobre mi trovavo in via Olivari, avviene il conflitto a fuoco e quello che ho già spiegato; dopodiché mi reco in via Monte Nevoso, dove comincia la perquisizione. Mi reco in sede e, mentre sono lì, mi chiama l’ufficiale del gruppo responsabile della perquisizione. Ricordo che furono istituiti dei gruppi misti, composti da personale dell’anticrimine e personale del nucleo operativo; il concetto fondamentale era che non si usciva se non si finiva di verbalizzare, anche se certo non pensavamo che ci fosse tanto materiale a via Monte Nevoso. Il collega mi informa che sono state ritrovate delle carte di Moro. Ne parlo e me le faccio mandare. E’ chiaro che il generale Dalla Chiesa le ha viste e le avrà portate senz’altro a Roma; però escludo nel modo più assoluto e tassativo che qualcosa sia stato sottratto, come mi sembra si voglia sottintendere.

PRESIDENTE. Il dettaglio mi sembra importante. Voi esaminate queste carte.

BONAVENTURA. Il collega Arlati mi dice di aver trovato diverso materiale su Moro; lo riferisco e me lo faccio mandare. Facciamo delle fotocopie.

BIELLI (DS):. Come è possibile che su alcuni quotidiani due giorni dopo avviene già una fuga di notizie?

PRESIDENTE. Il colonnello ci sta dicendo una cosa che finora non era mai emersa. Una parte della materialità dei ritrovamenti esce da Via Monte Nevoso e poi ci ritorna.

BONAVENTURA. Sì. Facciamo delle fotocopie, le diamo al generale Dalla Chiesa, e poi questo materiale ritorna nel covo per fare la verbalizzazione. Lo dico tranquillamente, senza alcun problema.

PRESIDENTE. Se fossi stato il magistrato inquirente, mi sarei molto “incavolato”. Si entra in un covo, deve arrivare l’autorità giudiziaria e si spostano le cose che stanno nel covo stesso prima dell’arrivo del giudice e che possa operare il sequestro?

(Integrale dell’audizione di Bonaventura)

Resta a questo punto una domanda da porsi.

La vicenda narrata da Bonaventura accade il 1 ottobre 1978. Chi è quel giorno il magistrato inquirente che – secondo il presidente della commissione stragi, il sen. Pellegrino – avrebbe dovuto “incavolarsi”?

Risposta facile: lo stesso di dieci anni dopo. Lo stesso a cui, dopo 17 giorni di “gestione” segreta, nell’estate del 1988, Bonaventura consegnerà il “pentito” Leonardo Marino, teste chiave nel processo Calabresi.

Ossia il dott. Ferdinando Pomarici, oggi procuratore aggiunto a Milano, ieri sostituto procuratore durante la perquisizione del covo di via Montenevoso e pubblico ministero del processo a Sofri e compagni per il delitto Calabresi.

Alla commissione stragi, due anni fa, con invidiabile candore, qualcosa Bonaventura aveva cominciato a dire.

Adesso che il col. Umberto Bonaventura, direttore dell’Ufficio analisi controspionaggio, terrorismo internazionale e criminalità organizzata transnazionale del SISMI, non c’è più qualsiasi domanda è destinata a rimanere senza risposta.

E di domande da fare a Bonaventura ce ne erano ancora molte. Moltissime.

(da “Misteri d’Italia”)

Anno 3 – N.55 del 16 novembre 2002

COSI’ GLI UOMINI DI LICIO GELLI GUIDARONO LA DIVISIONE PASTRENGO

MILANO – E’ il 1972 e un signore in borghese sale le scale che portano al primo piano della palazzina in stile littorio, nel pieno centro di Milano, alle spalle di Piazza della Repubblica, dove è il comando della Divisione dei Carabinieri Pastrengo, una delle tre unità in cui è divisa l’ Italia nella struttura dei Cc. Ad aspettare sulla porta del salone che ospita il comando c’ è il generale Giovan Battista Palumbo, allora sessantaduenne (morirà nel 1984), affiliato alla massoneria dal 1968. Palumbo conosce il signore in borghese: quell’ uomo era presente al suo giuramento massonico davanti al gran maestro Lino Salvini. Il signore è Licio Gelli. Il colloquio, secondo il racconto che lo stesso Palumbo farà ai magistrati milanesi nel 1981, è breve: “Gelli mi disse che era venuto a salutarmi e io, poichè in precedenza erano comparsi sulla stampa alcuni articoli che riguardavano la loggia P2, chiesi a Gelli di informarmi sulla natura di questa loggia… In quella occasione, a mia domanda, Gelli mi rivelò che anche io appartenevo alla Loggia P2”. E’ così che i giudici Gherardo Colombo e Giuliano Turone, il 22 aprile 1981 alle 10 di mattina, nove anni dopo, hanno la conferma dall’ interessato che per quasi quattro anni al comando della Pastrengo era rimasto seduto un affiliato del Venerabile maestro. Le famose liste P2 trovate a Castiglion Fibocchi il 17 marzo ‘ 81 non erano ancora note ma Palumbo, in pensione e allora sindaco della Banca d’ America e d’ Italia, ne aveva avuto notizia da un altro piduista di tutto rilievo, il colonnello Pietro Musumeci, uomo del Sismi, ex comandante a Milano del battaglione mobile dei Cc. Racconta Palumbo: “Io andai a Roma da lui. Musumeci mi disse che era stata fatta questa perquisizione e si mostrò preoccupato che i nominativi degli aderenti alla P2 venissero divulgati alla stampa… Mi pregò di mettermi in contatto con il dottor Viola…”. Ma Palumbo che cercava informazioni presso i magistrati ottiene l’ effetto contrario e finisce per essere interrogato. Nasce dunque in quei giorni il dubbio che al piano nobile della Pastrengo si sia installato un centro eversivo. Il dubbio, che ha scosso molti magistrati e anche alti ufficiali dell’ arma, trova, solo oggi, una conferma in un atto esecutivo. Martedì scorso, 10 dicembre, i giudici bolognesi Vito Zincani e Sergio Castaldo, che indagano sulla strage alla stazione, firmano un lungo mandato di cattura in cui, tra l’ altro si può leggere che è stato individuato presso “la divisione Pastrengo di Milano un centro di cospirazione di natura eversiva nel quale si rinvengono i nomi di personaggi a vario titolo emersi nel corso degli anni quali protagonisti di coperture illegali, illeciti e deviazioni di ogni genere”. E fanno anche i nomi: il generale Palumbo che dà copertura alle attività di Fumagalli e Orlando (Mar) nel ‘ 74; il colonnello Santoro, quello delle bombe di Trento del ‘ 71, che a Milano con Palumbo comanda la Polizia giudiziaria (a lui si costituirà Vittorio Loi, dopo l’ omicidio dell’ agente Marino); il colonnello Favali, poi capo di Stato maggiore di Palumbo che “per primo indirizzò le indagini per la strage di piazza Fontana”. Come si vede accuse gravi, e allora, forse, vale la pena raccontare cosa è accaduto nella Divisione Pastrengo in quegli anni cruciali. Le fonti su cui si basa la nostra ricostruzione provengono dagli atti della Commissione P2. Le prime avvisaglie si hanno nel 1972 quando in conversazioni private ufficiali dei carabinieri parlano di “un gruppo di amici degli amici” protetto da Palumbo. Un clan molto suscettibile pronto a schiacciare qualsiasi avversario e che aveva una caratteristica, quella della provenienza di servizio, dalla Toscana. I personaggi di spicco erano il maggiore Antonio Calabrese, iscritto alla P2, poi aiutante di campo di Palumbo, l’ allora comandante del primo reggimento Carabinieri, Pietro Musumeci, tessera P2, il colonnello Favali, il colonnello Santoro e vari altri. Musumeci per esempio, era solito fermarsi nell’ ufficio di Palumbo, anche se questo non era il suo superiore diretto. Ed è un gruppo che conta nella P2. Racconta ancora Palumbo, cercando di minimizzare ma non riuscendovi: “Nel 1973 ricevetti una telefonata di Licio Gelli che mi chiedeva di recarmi da lui ad Arezzo perchè aveva bisogno dei miei consigli. Io mi recai effettivamente ad Arezzo e trovai insieme a Gelli altre persone, quattro o cinque, che non conoscevo. Queste persone mi furono presentate ma io non ricordo il nome. E’ possibile, ma non ne sono sicuro, che fosse presente anche il generale Picchiotti che conosco da lungo tempo. Posso dire comunque che tra le persone c’ era anche qualche altro esponente dell’ Arma. Mi recai alla riunione accompagnato dal mio aiutante di campo, il tenente colonnello Calabrese, anch’ egli affiliato alla P2…”. La riunione è importante, Gelli invita gli ufficiali dei Cc ad appoggiare “in qualsiasi circostanza un governo di centro… con i mezzi che avete a disposizione”, ma Palumbo fa finta che si tratti di aria fritta. E’ tra il ‘ 74 e il ‘ 75 che il gruppo degli “amici degli amici” ha il suo massimo potere all’ interno della Pastrengo. Il generale Palumbo continua a imperare a Milano, e a vicecomandante dell’ Arma viene nominato il generale Franco Picchiotti che abbiamo trovato nel ‘ 73 alla riunione a Villa Wanda. L’ anno successivo il clan P2 raccolto intorno alla Pastrengo subisce qualche leggera defaillance. Palumbo lascia la Divisione per la carica ben più importante di vicecomandante, succedendo a Picchiotti, ma alla palazzina di via Marcora, sede della Pastrengo, arriva un ufficiale che con la P2 non ha nulla a che vedere, il generale Edoardo Palombi. Lo sbandamento dura poco meno di un anno. Palombi, che pure ha ottenuto notevoli successi sia contro la delinquenza comune sia nella lotta al terrorismo, viene stretto in una morsa; dal basso lo attaccano i sottoposti, eredi di Palumbo, dall’ alto è incalzato da una nuova struttura parallela che, facendo leva sulle parentele di un alto collaboratore dell’ allora ministro democristiano della Difesa, Vito Lattanzio, cerca di pilotare le promozioni. A Milano, in quel periodo, diventa potente un civile, che, già al tempo di Palumbo, faceva parte del gruppo: un commerciante, allora quarantenne, fratello del collaboratore di Lattanzio. E’ a questo personaggio, considerato potentissimo ma il cui ruolo è misterioso, che si rivolgono molti ufficiali per avere avanzamenti. A questo punto, siamo nel ‘ 77, la riconquista della Pastrengo da parte della P2 è cosa fatta. A comandare la Legione di Milano viene mandato da Firenze il colonnello Rocco Mazzei, ex comandante del gruppo Cc di Arezzo e, stando alle voci, intimo amico di Gelli (Mazzei nel novembre del 1979 dopo una lunga polemica interna si dimise per andare a ricoprire la carica di responsabile per la sicurezza del Banco Ambrosiano di Calvi). E’ in questo quadro che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa alla fine del ‘ 79 viene nominato comandante della Pastrengo. Ed anche con lui, che nel ‘ 76 aveva firmato una domanda di adesione alla P2 (senza però dare seguito), Gelli tenta il contatto, ma inutilmente.

di GUIDO PASSALACQUA

La Repubblica, 15 dicembre 1985

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