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Pucci Panzieri

Pucci Panzieri, oggi a Torino c’è stato il suo funerale. Aveva quasi 99 anni, si chiamava Pucci Saija e aveva conosciuto Raniero Panzieri alla fine della guerra: come altre coppie di loro amici si erano sposati nel ’48, per mettere al mondo poi i tre figli Susanna, Davide e Daniele.

Pucci e Raniero si erano conosciuti nell’ufficio studi socialisti di Rodolfo Morandi, la sinistra socialista. Lui Raniero era sopravvissuto ai tedeschi a Roma, in clandestinità con altri giovani ebrei come Paolo Padovani. Lei era una germanista e per tutta la vita ha tradotto autori tedeschi ma anche Karl Marx, il suo secondo libro del Capitale. Tra gli autori che aveva tradotto, Lutero, Mörike, Brecht…

Nel 1964 Raniero era improvvisamente morto, lasciandola con i suoi tre figli, un’atroce morte che aveva colpito il gruppo dei Quaderni Rossi in cui Raniero militava  con forte impegno, soprattutto dopo il licenziamento subito all’Einaudi a causa del caso nato con il libro di Goffredo Fofi “L’immigrazione meridionale a Torino” che la casa editrice non volle pubblicare.

Ma soprattutto era stata colpita Pucci con i suoi figli.

Pucci viveva in Strada alle Sei Ville, aveva insegnato a lungo, era una donna molto affettuosa. La ricordo alla nascita di mio figlio Andrea, venuta a Roma per starci vicino, soprattutto ad Anna figlia dei suoi più cari amici a Roma.

La rivista “Una città” l’ha intervistata tempo fa, per ripercorrere la sua intensa vita. Eccola qui di seguito. Per ricordare una straordinaria donna del ‘900 (qui sotto in una foto molto nota, con Raniero davanti alla porta due di Mirafiori, che pochi anni dopo sarebbe diventata teatro di appuntamenti di lotta quotidiani…)

UNA CITTÀ n. 129 / 2005 Maggio

Intervista a Pucci Saija Panzieri
realizzata da Pinzi Giampiccoli

LA MIA VITA E’ STATA BELLA

Messina, Palermo, poi Roma e infine Torino, dai contadini siciliani agli operai della catena di montaggio di Mirafiori, la militanza socialista di Raniero Panzieri e di sua moglie Pucci. I figli da crescere, le difficoltà economiche e i lavori sempre precari. L’amicizia di Nenni e di Rodolfo Morandi. La delusione del licenziamento all’Einaudi. La morte improvvisa a soli quarantatré anni. Intervista a Pucci Saija Panzieri.

Per gentile concessione di Pucci Saija Panzieri, di Pinzi Giampiccoli e della casa editrice Punto Rosso (edizioni@puntorosso.it – 02.874324), pubblichiamo l’intervista alla signora Pucci, che compare nel libro Raniero Panzieri, un uomo di frontiera, edizioni Punto Rosso. Il libro, a cura di Paolo Ferrero e con prefazione di Marco Revelli, contiene anche i contributi di Gianni Alasia, Luca Baranelli, Sergio Bologna, Giorgio Bouchard, Ester Fano, Pino Ferraris, Goffredo Fofi, Nando Giambra, Pinzi Giampiccoli, Giovanni Jervis, Dario e Liliana Lanzardo, Luca Lenzini, Edoarda Masi, Mario Miegge, Giovanni Mottura, Cesare Pianciola, Vittorio Rieser, Renato Solmi, Mario Tronti.

Ho conosciuto Pucci alla fine del 1961 a Torino frequentando le riunioni dei Quaderni rossi.
Spesso la sera andavamo a trovare Pucci e Raniero nella loro piacevolissima casa in collina in un soggiorno con grandi finestre che davano su un giardino pieno di alberi, con le pareti interamente coperte da librerie piene di libri e di dischi e passavamo insieme ore di discussione non solo su questioni politiche, ma anche culturali, musicali e letterarie, da Luigi Nono a Brecht, da Marx a Max Weber, Guttuso, Dallapiccola, Schonberg ecc. Non si trattava di riunioni politiche, che si tenevano nella sede dei Quaderni rossi in via Bligny, ma di incontri tra amici1.
La mia amicizia con Pucci è nata in quegli anni e mi ha accompagnato da allora fino ad oggi.
Dopo la morte di Raniero, Pucci aveva avuto un incarico in una scuola media della cintura di Torino, Venaria, e lì abbiamo lavorato insieme in un gruppo di compagne che condividevano con lei l’entusiasmo, l’interesse, la voglia di sperimentare e le lotte per il cambiamento della scuola: sono stati anni molto pieni e anche divertenti!
La figura di questa donna che, anagraficamente, apparteneva alla generazione dei miei genitori, ma con la quale ho condiviso tanti momenti importanti come se fosse una mia coetanea, è molto particolare e ha esercitato su di me e su molte altre donne che facevano parte dei Qr o dintorni, un grande fascino: è stata una donna attiva, impegnata sia culturalmente che politicamente, emancipata ma contemporaneamente una casalinga efficiente, che sapeva cucinare stupendamente e accudiva ben tre figli che ha troppo presto dovuto allevare da sola.
La coppia che formava con Raniero è stata per molti di noi un esempio di libertà, reciproco rispetto, profondo legame, gioia di condividere, scambio di idee e di opinioni: una coppia ricca (non certo dal punto di vista dei soldi) e sicuramente felice. Penso che nessuno dei due sarebbe stato quello che è stato senza l’altro/a.
Questa che segue non è un’intervista, Pucci mi ha chiesto di non farle domande troppo rigide e di non chiederle analisi politiche; è semplicemente una chiacchierata che ha lo scopo di fare conoscere la persona che è stata la più importante nella vita di Raniero.
Sull’ultimo periodo, quello di Torino e dei Quaderni rossi, c’è molto altro materiale in questo libro. Pucci mi ha chiesto di non soffermarsi sugli ultimi anni di Raniero.
Pinzi Giampiccoli

Raccontami com’era la tua famiglia di origine.
Quando sono nata, ad Alessandria, il 30 ottobre del 1917, mio padre era in guerra e non so perché mia nonna, che viveva a Bologna, non fosse venuta e così mio padre aveva mandato il suo attendente per aiutare mia madre. Non so perché fossimo ad Alessandria, mia madre, che si chiamava Maria Clelia Castaldini, mi ha sempre raccontato poco mentre mio padre mi ha raccontato le storie della sua famiglia.
La mia nonna materna era una donnina deliziosa, ma suo marito era un “mascalzone” che aveva speso tutti i suoi soldi in gioco e donne: era di famiglia ricca, proprietari terrieri, e aveva sperperato tutto e così aveva dovuto trovare un lavoro e si era messo a fare il cocchiere; portava in giro la gente per guadagnare qualcosa. Mia madre non lo ha mai voluto vedere e non lo voleva per casa, così veniva la nonna da sola. Mio padre, poi, li ha mantenuti mandando loro dei soldi tutti i mesi: era un uomo di grande generosità!
Mia madre aveva una bellissima voce e le chiedevano di cantare in chiesa, cantava l’Ave Maria di Gounod e altro. In casa, mio padre, che non aveva mai studiato e suonava ad orecchio, stava al pianoforte e lei, che era un mezzosoprano, cantava la Butterfly. Lei aveva avuto una vita difficile. Studiava canto ma aveva dovuto smettere: si era messa a fare la modista per sopperire alle necessità della famiglia. Mio padre era andato a studiare a Bologna e, siccome la famiglia di mia madre affittava delle stanze agli studenti per campare, si sono conosciuti così. Si sono innamorati e si sono sposati.
Mio nonno paterno, Michele Saija Merlino, secondo i racconti di mia sorella Vera, di tre anni più vecchia di me, aveva ceduto il titolo di marchese al fratello minore e così mia sorella è stata battezzata con i due cognomi e io con uno solo.
Mio nonno aveva tenuto una corrispondenza con Garibaldi ed era repubblicano così come anche mio padre.
Mio padre era sopravvissuto miracolosamente al terremoto di Messina grazie al suo cane che era uscito di casa e, per cercarlo anche lui era uscito e, poco dopo, aveva visto la sua stanza da letto crollare, compreso il suo letto: è così che si è salvato. Solo il fratello più giovane è morto; essendo malato, il padre, che era medico, lo aveva mandato a dormire nel letto con la madre: al momento del terremoto una trave si è staccata e lo ha colpito in pieno mentre la madre, che gli era accanto, è rimasta illesa.
La caserma dei carabinieri era crollata sulla maggior parte dei carabinieri in servizio mentre le carceri si sono aperte e si sono svuotate per cui c’è stata una razzia e uno sciacallaggio spaventoso! Anche la famiglia di mio nonno aveva perso due case nel terremoto.
Mio nonno era un proprietario terriero, ma era anche medico e aveva un calessino con il cavallo: andava in tutti i paesi a curare gratuitamente la gente povera e si faceva pagare da quella ricca e mi raccontava papà che, a volte, succedeva che lo fermassero dei briganti che lo portavano in una grotta e lo derubavano di tutto ciò che aveva.
Mio padre, siciliano, ha girato per diverse città italiane perché non aveva la tessera fascista. Praticamente ogni anno veniva trasferito, perfino in Sardegna. Siamo stati a Borgo S. Lorenzo, dove ho fatto la seconda elementare, avendo saltato la prima.
Ogni anno abbiamo cambiato città finché siamo andati a Gorizia, dove io ho fatto dalla metà della prima media fino alla terza liceo. Mio padre aveva l’ufficio a Udine, era un ingegnere dell’Anas e faceva tutti i giorni il viaggio in macchina tra Gorizia e Udine. Finché, ad un certo punto, quando stavamo a Gorizia, gli hanno posto l’aut-aut: “O la prendi, o ti licenziamo”. Lui, con tre figli e una moglie già malata, ha dovuto farlo. La mamma aveva aspettato molto per farsi visitare. Allora le donne non si facevano visitare e mio padre era riuscito a portarla a Bologna dopo un anno di sofferenze, in un centro specializzato, ma era ormai troppo tardi. La mamma è morta un mese prima che io compissi 15 anni.
Quell’anno ero stata malatissima: avevo avuto le febbri reumatiche e non mi potevo muovere. Non dovevo neanche leggere. Allora io tenevo il libro nascosto sotto il cuscino e quando entrava la donna di servizio, lo nascondevo. Poi ho avuto una broncopolmonite. Poi mi hanno tolto le tonsille. E quindi avevo saltato troppi giorni di scuola e non potevo fare l’esame di quinta ginnasio. Così quando la mamma è stata portata in ospedale, alla fine di maggio, io sono andata da mio padre e gli ho detto: “Senti papà, io voglio fare l’esame di Quinta”. E lui mi ha risposto: “Fai tu, compra i libri che ti servono, cercati gli insegnanti”. Lui, figurati, con una moglie in quelle condizioni doveva andare e venire tra Udine e Gorizia e non poteva certo occuparsi di me. E allora io mi sono data da fare e sono stata promossa. Allora sono andata dalla mamma e le ho detto che ero stata promossa e lei mi ha detto: “Non è vero che sei brutta, diventerai bella anche tu”. A me non importava assolutamente niente di essere bella o brutta: in casa mia sorella era molto bella e mondana e io ero quella cui mio padre regalava sempre dei libri perché sapeva quanto mi piacevano.
Raniero non mi ha mai detto “Sei bella”, mi ha sempre detto “Sei affascinante”.
Dove hai fatto l’università?
Con mio grande dispiacere, abbiamo lasciato Gorizia e ci siamo trasferiti a Torino, dove ho fatto l’università.
Quando ho detto al mio professore che volevo fare una tesi su Holderlin, poeta di cui mi aveva parlato un mio amico, lui mi ha detto: “Signorina, lei è matta!” perché non esisteva all’università un solo testo di o su Holderlin. Allora io sono andata da Fogola2 e li ho ordinati e così mi sono innamorata di questo poeta e ho scritto, facendo una discreta fatica, la mia tesi.
Dopo la laurea il mio professore mi aveva detto: “Senta, c’è una borsa di studio per andare in Germania”. Ma siccome c’era una ragazza che si laureava con lui e che aveva bisogno di andare ma non aveva i mezzi, il professore mi aveva detto: “Se lei concorre, vince, perché ha più titoli e il voto della tesi è molto più alto”. E allora io ho detto: “Ma per carità, professore: la mandi pure”. Il mese dopo lui mi telefonò dicendo: “Vede, le buone azioni vengono sempre premiate: c’è una nuova borsa di studio per lei se vuole concorrere per l’Istituto di Studi Germanici di Roma”. E io ho concorso e l’ho vinta ed ero l’unica piemontese all’Istituto, il cui direttore era Gabetti. La borsa di studio era di mille lire al mese per due anni.
Per iniziare ci hanno mandato per due mesi a Tubinga dove ho vissuto in una pensione tenuta da due anziane signorine deliziose. La sera una si metteva al pianoforte e l’altra cantava. Mi ricordo di quel soggiorno in Germania, la gentilezza squisita della gente ed alcuni episodi che dimostravano come, eravamo nel ‘42, ci fosse gente che non era a favore del nazismo. Mi ricordo che un giorno una delle due signorine mi aveva detto: “Sa, quando vedo da lontano due SS con le loro divise nere io scantono subito” e questo era il 1942! Un’altra volta ero andata a fare una gita per vedere un castello e c’era una terrazza da cui si vedeva tutta la collina piena di faggi, meravigliosa con una magnifica campagna che si vedeva più avanti e lì vicino a me c’era un soldatino in divisa, molto giovane, avrà avuto 22 anni, che si volta verso di me e mi dice: “E’ così bello il mondo, perché bisogna fare la guerra?”.
C’era anche una bellissima biblioteca dove si poteva andare a prendere i libri che ti servivano senza che nessuno ti chiedesse niente.
E così tanti altri piccoli episodi, dalla signora che mi aveva regalato dei libri perché in casa sua più nessuno leggeva in tedesco, all’avvocato che aveva invitato a cena me e un mio compagno di studi norvegese e ci avevano offerto torte e pasticcini da esaurire la loro tessera mensile.
Poi sei tornata a Roma?
Sì, sono tornata a Roma e abbiamo cominciato i corsi ai primi di gennaio: i corsi si tenevano a Villa Sciarra e io ho vissuto a casa di mia zia Giulia, così non avevo spese per l’alloggio e mi avanzavano dei soldi e mi sfogavo a comprarmi dei libri. Poi, nel secondo anno, invece, sono andata a vivere in una pensione perché da mia zia non c’era più posto: mia cugina, con i due figli, era venuta a Roma da Messina dove cominciavano ad arrivare gli americani, c’erano continui combattimenti con i tedeschi così il marito le aveva detto: “No, no, voi ve ne andate” e avevo dovuto lasciare la casa della zia.
I corsi si tenevano a Villa Sciarra, che era un posto meraviglioso, pieno di pavoni bianchi e colorati, con grandi viali dove passeggiavi sotto archi di roselline: era una meraviglia.
L’ambiente era tutto composto da antifascisti, a cominciare da Gabetti che si barcamenava ma era in gamba. Professore di storia era Sestan, certamente antifascista, come quello di filosofia. L’unico tedesco era odioso. L’abbiamo trattato così male che se n’è andato. E allora è venuta la moglie di Cantimori, che era una trentina e conosceva bene il tedesco. Uno dei miei compagni, un siciliano, che era comunista, mi aveva detto in gran segreto che Cantimori era comunista, per lo meno di idee, e quindi stavamo bene. Erano tutti, tutti antifascisti. Non a caso Gabetti li aveva chiamati. Una mia compagna di corso mi aveva detto di una signora che affittava una stanza a Villa Ada sulla via Salaria dove abitava anche lei, così ho affittato una stanza proprio sotto la sua. La sera spesso lei scendeva, mi spegneva la sigaretta e la luce per costringermi a dormire perché io leggevo fino a tardi, e se ne tornava nella sua stanza: era molto brava.
Quegli anni lì sono stati veramente molto belli e io da allora avevo deciso che sarei tornata a Roma perché mi piaceva troppo ma… intanto dovevo tornare a Torino.
E a Torino?
Devi sapere che dopo la guerra c’era il ritorno di quelli che erano riusciti a scampare ai campi di concentramento e venivano uno per uno a raccontare la loro storia in un centro apposito situato in fondo a corso Regina Margherita. Io, con due compagne, andavamo lì tutti i giorni: io stavo seduta ad una scrivania a scrivere chi erano, da dove venivano, molti erano soldati e avevano ancora la divisa perché non avevano altri abiti, molti erano coperti di abiti recuperati in vario modo e si vergognavano di essere sopravvissuti mentre gli altri erano morti. E’ stato un lavoro molto penoso.
Come vi siete conosciuti?
Un giorno, tornando a Torino da Roma dov’ero andata perché avevo finito di tradurre gli scritti politici di Lutero e avevo difficoltà per alcuni termini dialettali e quindi dovevo consultare un esperto. In treno ho incontrato Michele Giua che era stato appena liberato dal confino con la moglie, ci siamo messi a chiacchierare e io ho detto: “Quanto mi piacerebbe vivere a Roma!” e lui mi ha indirizzata a Lelio Basso (che allora era il segretario del partito) dicendomi: “Vai a parlare con lui”.
Sono andata a Milano e ho trovato Lelio Basso che era molto simpatico e intelligente e gli ho detto, per cominciare: “Guarda che io non mi iscrivo al Partito, perché non voglio avere una tessera, almeno per il momento”. E lui mi ha detto: “Ah, ma non importa niente, puoi fare la rassegna stampa dei giornali inglesi, francesi, tedeschi”.
E così, sono venuta a Roma con il mio tedesco e con quel poco di inglese che conoscevo e quel francese che non ho mai studiato ma che miracolosamente riuscivo a leggere. Ed è stata la mia grande fortuna perché lì ho conosciuto Raniero.
Sono andata a lavorare al Psi con Tullio Vecchietti e dovevo fare la rassegna stampa, soltanto che c’erano pochissime stanze e non c’era posto per le riviste. Allora Vecchietti mi ha detto: “Vai a lavorare all’Ufficio Studi Socialisti” e lì ho conosciuto Raniero che lavorava con Rodolfo Morandi. Mi hanno subito naturalmente accolta con piacere e per Tullio Vecchietti non ho più fatto nulla. Facevo quel po’ di rassegna stampa e poi riordinavo, insomma mi davo da fare. Lavoravo con Raniero tutti i giorni e, dopo poco, ci siamo messi insieme.
Rodolfo Morandi era un uomo straordinario, al di sopra della media e io ne avevo molta soggezione.
Avevo instaurato l’uso del tè, avevo portato una teiera e qualche tazza e il pomeriggio facevo il tè. Un giorno Raniero mi ha detto: “Ma porta anche una tazza a Morandi” e io, non mi dimenticherò mai, con questa tazza che mi tremava nelle mani sono andata a portare il tè a Morandi ed ero rossa come il vestito che avevo addosso. Ero molto timida per certe cose soprattutto di fronte a delle personalità. Con Nenni non sono mai stata timida, ma con Morandi sì, perché era un uomo superiore, come intelligenza, come onestà, come dirittura morale. E io mi sentivo terribilmente imbarazzata. In quell’istituto mi hanno costretto a imparare a bere il caffè: io non bevevo mai caffè perché da piccola mia madre mi dava l’olio di ricino con un po’ di caffè e quando ho raccontato questo mi hanno talmente presa in giro che ho dovuto cominciare a bere caffè.
Quando lavoravo alla rivista c’era un’atmosfera di lavoro intenso, e di grande amicizia. Si guadagnava pochissimo, non sempre mi davano lo stipendio quand’era il momento ma poi me lo davano. Per Raniero era più facile perché viveva in casa con i suoi che lo viziavano moltissimo.
Sono stati degli anni molto belli, quelli all’Istituto. Poi è stato chiuso e siamo rimasti senza lavoro.
Quando vi siete sposati?
Io e Raniero abbiamo cominciato ad amoreggiare e il prodotto è stata Susanna. Quando c’è stato il congresso del Psi a Genova io avevo accompagnato Raniero e mi sono accorta di essere incinta. E allora ho detto: “Raniero, sai? Credo di essere incinta”. E lui: “Ah, va bene”. Allora sono venuta a Torino dove stava ancora mio padre con la moglie e il figlio e gli ho detto: “Senti papà, io sono incinta, Raniero e io abbiamo deciso di sposarci”. E mio padre è stato straordinario, pensa lui, siciliano, non ha detto mezza parola. E’ vero che io avevo già trent’anni… ma è stato carissimo.
E infatti ci siamo sposati, nel settembre del ‘48, e al matrimonio, pensa, non sono venuti né mio suocero, né mia suocera, né la sorella di Raniero. Ci aveva sposato un compagno socialista che, sapendo che Raniero era del partito, anziché farci un discorsetto matrimoniale ha elencato a Raniero tutte le questioni che avrebbe dovuto far discutere a Roma.
Non so perché e non so come sia venuto fuori Raniero da quella famiglia: il padre era un ometto simpatico ma superficiale e farfallone. Raniero lo trattava come un suo fratellino minore e lo sgridava. Loro non sono venuti e invece noi siamo andati a trovarli dov’erano in villeggiatura sulla costa adriatica. Al matrimonio c’era un fratello di mia suocera, con la moglie, odiosi tutti e due, e la mia famiglia. Poi c’erano gli amici, ricordo Annamaria Grassi e Marcello Cini, amici di sempre, e altri.
Siamo andati a vivere a Ostia, e vivevamo nella stanza di una pensione. Spesso non avevamo i soldi per mangiare e a volte Raniero andava a Roma a consegnare un articolo così tornava con un po’ di soldi e io andavo ad aspettarlo alla stazione.
Un giorno Raniero aveva incontrato Galvano Della Volpe che lo aveva visto un po’ giù e gli aveva chiesto come mai, e Raniero aveva detto: “Sai, mia moglie è incinta, viviamo in una stanza ad Ostia e io non ho lavoro”. Galvano Della Volpe insegnava a Messina. Un giorno, quando Raniero era andato a Roma, arriva un telegramma: “Conferito incarico. Vieni subito Università Messina. Firmato Della Volpe”. Allora io, sventolando questo telegramma, gli ero andata incontro alla stazione dicendogli: “Raniero, è arrivato!!”. Così poi lui è partito.
Quando siete andati a Messina?
Galvano Della Volpe era riuscito a far dare un incarico per l’insegnamento di Filosofia del diritto a Raniero alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Messina, incarico che ha avuto per tre anni dal 1949 al 1951 e il partito gli aveva dato l’incarico di occuparsi della Federazione socialista. Raniero è partito prima e io l’ho raggiunto dopo poco.
Mio padre è venuto a trovarmi a Messina e nei primi mesi dopo la nascita di Susanna mi mandava 10.000 lire al mese che per noi erano una manna.
Io ho partorito in ospedale a Messina mentre Raniero era a far lezione.
Susanna è nata con molta facilità: ho cominciato ad avere le doglie verso le 9 del mattino e lei alle 13 era già nata. Quando mia cugina ha telefonato a Raniero per dirgli che era nata, lui ha detto: “Dite a Pucci che anche questa volta ho fatto a modo mio”. Ci teneva molto ad avere una bambina, perché aveva un amico che ne aveva due che a lui erano molto simpatiche. Susanna era biondissima con gli occhi azzurri e lui se la portava sempre in braccio per farsi dire dai compagni: “Oh che bella bambina!!”. Era nata il 12 febbraio ma Raniero l’aveva denunciata all’anagrafe con la data del 14 che era il giorno del suo compleanno perché fosse lo stesso giorno suo. Più tardi anche Davide, che era nato alla vigilia di Natale, è stato registrato il 2 gennaio!
A Messina stavamo in una stanza al pianterreno, una casa piena di scarafaggi, a Monte Piselli. Era una villa che era stata occupata prima dai tedeschi, poi dagli americani e mi ricordo che la cucina a legna aveva tutte le pareti completamente nere, avevamo un letto, un armadio senza le ante e ci avevo messo due tende e io ero una donna felice, avevo questa bellissima bambina eccetera. Facevo 120 gradini per scendere con Susanna, arrivata in fondo lasciavo la bambina a dei contadini, tornavo su e prendevo la carrozzella e andavo fino alla strada, poi tornavo indietro per prendere Susanna e andavo a fare la spesa.
Quando si è felici non si sentono tanti problemi materiali e devo dire che avere o non avere comodità non era importante, forse perché stavamo bene insieme, così contenti, così sereni. Tutto questo non mi ha mai pesato.
Mio padre, quando è venuto a trovarmi, poverino, ci è rimasto male nel vedere dove e come vivevamo. Però sono stati anni belli, nonostante le ristrettezze di cui adesso quando mi ricordo mi viene da sorridere: giusto le sigarette per Raniero e il caffè, quello non mancava mai. Mi ricordo che compravo del pesce che costava 50 o 60 lire al chilo, poi facevo pastasciutte e ogni tanto andavo a raspare nell’orto dove potevo prendere un cavolfiore o altro. Siamo vissuti benissimo lo stesso.
Poi Raniero si è preso una polmonite e l’ha passata a Susanna e allora per fortuna un’amica che era pediatra ha dato a Susanna i primi antibiotici, la penicillina e a Raniero un medico, che era un compagno, gli ha dato qualche medicina.
Un giorno Nenni era venuto da noi, veniva da Catania dove c’era stato il pericolo che gli facessero un attentato così era venuto a Messina e dormiva sul divano in casa nostra e uno degli operai che lavoravano al traghetto era rimasto di guardia tutta la notte seduto su una sedia in corridoio.
Al mattino Susanna si è alzata e io l’ho vestita e poi è scomparsa e io ho detto: “Oh Dio, è andata a svegliare Nenni!”. Apro la porta e vedo Nenni che era sul balcone (avevamo cambiato casa e avevamo un terrazzo che girava tutto intorno al piano alto dove eravamo andati a stare), la teneva in braccio e passeggiava tranquillamente con questa bimbetta che lo chiamava “zio Peto”.
Nenni è sempre stato carissimo con noi, devo dire la verità. Ricordo che anni dopo, in una riunione in cui Nenni, che era appena tornato da Pralognan, era intervenuto, Raniero, che non aveva peli sulla lingua, per esprimere il suo disaccordo gli aveva detto: “Zitto tu che sei stato a Pralognan…”3. Ma Nenni non se la prendeva mai con lui.
Quando ci fu l’occupazione delle terre nel 1951 Nenni aveva scritto: “Sono rimasto commosso nell’avvicinare in Sicilia i contadini delle località dove si sono svolte le lotte, sentirmi ripetere il nome di questo giovane professore universitario sempre alla testa dei cortei e il primo a sfidare il fuoco della polizia. Ecco come si concilia la cultura con le lotte dei lavoratori”.
Devo dire che gli anni della Sicilia sono stati i più belli perché c’era una forza, un entusiasmo tra i compagni; ogni tanto Raniero telefonava alla padrona di casa e mi faceva chiamare e mi diceva: “Senti, prepara qualcosa da mangiare perché Mimmo (Rizzo) e Nando (Giambra)4 non hanno un soldo in tasca e non possono neanche mangiare”.
Era proprio così. E allora io se avevo della pasta facevo della pasta, se avevo soltanto patate facevo un pentolone di patate bollite, compravo un panetto di burro e davo loro patate schiacciate con il burro, alla piemontese. Sai che sia Mimmo che Nando mi hanno detto la stessa cosa e cioè che hanno mantenuto questa abitudine di mangiare le patate bollite con il burro.
Il ricordo della Sicilia, di questi compagni, dei sacrifici che facevano, dell’entusiasmo che avevano, la voglia di fare, non si stancavano mai, non mi abbandona. E capisci perché penso a quel periodo come a un periodo meraviglioso.
E poi vi siete trasferiti a Palermo?
Sì, nel novembre del 1951, ma io dovevo spostarmi in treno tutte le settimane perché mi avevano dato un incarico per insegnare letteratura tedesca a Messina, anche per questo non partecipavo molto alle riunioni politiche. Quando io ero incinta di Davide e stavamo ancora a Messina, ma non avevamo più la casa, io stavo in albergo fino a quando, essendo morto il marito di mia cugina, lei mi ha invitato ad andare a stare da lei: si avvicinava il tempo del parto e c’era lo sciopero degli zolfatari5 e io per 40 giorni non ho più saputo nulla di Raniero, non sapevo dov’era, né che cosa era successo, sapevo che c’erano gli scioperi, la polizia ecc… poi una volta mi ha telefonato e mi ha detto che mi veniva a prendere per traslocare e trasferirci a Palermo. Allora mio padre mi mandò un po’ di mobili della mia stanza da letto di Torino e mi ricordo che con una pancia così disfavo casse di vestiti.
Quando è stato il momento io ho detto: “Raniero, ho un dolore qui deve essere un attacco di fegato…”, invece stavo per partorire, allora lui è sceso dalla padrona di casa per telefonare alla moglie di un compagno che era ostetrica. Nella villa accanto abitava la famiglia Colajanni, loro avevano cinque figli e quindi una certa esperienza… allora lei è venuta ad assistermi e Davide è nato in un momento e lei era tutta contenta “Pucci, è un maschio!”, lei aveva quattro maschi e una bambina.
Con due bambini e il lavoro all’università riuscivi a partecipare all’attività politica?
Qualche volta partecipavo ma non molto; anche perché non ho mai voluto stare in prima fila e non osavo parlare, un po’ perché ero molto timida e un po’ perché non mi sentivo preparata.
Avevo preso la tessera del partito perché avevo visto come lavoravano. Quando ci sono state le elezioni (le regionali del 1951) io lavoravo con Nando Giambra, un lavoro organizzativo e a volte si finiva a mezzanotte e mi facevo a piedi tutta via della Libertà fino a casa mia; ci mettevo una mezz’ora ma non mi è mai successo che qualcuno mi importunasse, né a Messina né a Palermo, cosa che invece a Torino si è verificata.
Quando ci sono state le elezioni ho fatto anche dei comizietti con Pierina Gullotta6; nei villaggi ci fermavamo sull’aia delle case dei contadini. Ci veniva a prendere con la macchina del partito un compagno molto simpatico che voleva insegnare a Susanna a guidare. Ci vedevamo lì io e Pierina e cominciavamo a chiacchierare.
I1 Psi poi era andato benissimo tanto è vero che la moglie di Bufalini, che allora era il corrispettivo di Raniero nella federazione comunista e che era una donna che io già conoscevo, una volta venne da me e disse: “Ma ci avete portato via tutti i voti in certe campagne e tra i pescatori…”, perché evidentemente eravamo convincenti!
Pierina era più timida di me ma io quando parlavo con questi contadini mi sentivo talmente a mio agio… e sedevamo lì e poi ci davano quei bicchierini che usavano di rosolio, assolutamente spaventoso, e prima di andare via staccavano tre o quattro limoni o un ramo e ce li regalavano.
I comizietti erano una cosa semplice, con qualche contadino e le mogli e si diceva: “Sapete che bisogna lottare per questo o quel motivo”, concetti elementari, al loro livello perché per la maggior parte erano analfabeti. Una volta uno di loro mi disse, guardando un getto d’acqua che sgorgava lì vicino: “Vede quella è acqua potabile ma noi non la possiamo bere”, erano mezzadri e non potevano bere quell’acqua che era del padrone.
L’occupazione delle terre è stata un’esperienza straordinaria: vedere quei contadini che lottavano contro i proprietari latifondisti che lasciavano le terre incolte mentre loro giustamente volevano lavorarle per campare. Raniero mi raccontava che nei cortei in testa c’era il prete e, accanto, un contadino con la bandiera rossa.
Ho conosciuto in Sicilia delle persone veramente straordinarie, almeno quelle che gravitavano intorno alla federazione e sono rimasta in contatto con Mimmo Rizzo, Nando Giambra e anche Pierina Gullotta.
Questo per dirti che cosa era la Sicilia: tutti quegli anni, dal dicembre del ‘48 quando siamo andati a Messina al ‘53 quando siamo andati a Roma, sono stati veramente splendidi!
Un giorno è arrivata una telefonata dalla Questura e allora io vado là e mi presento e c’è un grosso maresciallo che ci conosceva e che mi dice: “Suo marito dovrebbe presentarsi qui perché c’è una procedura contro di lui” e io: “Guardi, mi dispiace ma mio marito in questo momento è a Roma e non so quando potrà tornare”, allora lui ha preso l’incartamento e mi ha detto: “Guardi questo è l’incartamento intestato a suo marito, lo metto nell’ultimo cassetto sotto una pila di pratiche e là resta”. Questa è la Sicilia.
Io allattavo, ma andavo spesso in federazione a lavorare e a dare una mano mentre Raniero veleggiava perché gli avevano dato anche la stampa e propaganda a Roma e allora faceva avanti e indietro per cui certe volte ci incontravamo alla stazione: lui arrivava e io partivo per Messina. Io partivo e Susanna restava con una ragazza e con Raniero che cercava di stare a casa il più possibile mentre io con Davide, la carrozzella, un pacco di panni enorme perché allora non c’erano quelli da buttar via, e la valigia, mi domando ancora oggi come ho fatto.
A Messina ho trovato una stanza e, siccome la padrona di casa aveva una figlia giovane le dicevo: “Guarda, per qualche ora lascio Davide sul letto” (ma una volta è anche caduto dal letto, poveretto). E poi andavo a lavare i panni nella cantina dove c’era un lavabo.
Io, comunque, ero contentissima, e poi mi piaceva anche insegnare.
Il periodo siciliano è stato certamente il più bello.
Per quanto tempo hai insegnato a Messina?
L’ho fatto per tre anni e tenevo dei corsi su Holderlin. Una volta è venuta da me una studentessa che voleva fare una tesi su Thomas Mann. “Ah – le ho detto- lei conosce il tedesco?” e lei: “No, l’ho letto in italiano!” e allora l’ho cacciata via. Un’altra volta, quando stavo nella pensione con Davide piccolo, si sono presentati padre, madre e figlio e cameriera con una torta gigantesca e li ho spediti via. Un’altra volta me ne era arrivata una che ho dovuto rispedire al mittente riportandola alla pasticceria: c’era molta corruzione…
Poi nel ‘53 abbiamo lasciato la Sicilia ed è venuto un altro compagno ad occuparsi della federazione perché Raniero, oltre all’incarico che aveva della stampa e propaganda, era entrato nella Direzione del partito e così ci siamo trasferiti a Roma.
E così hai lasciato il tuo incarico a Messina?
Non me lo hanno più ridato e anche Raniero non era stato più incaricato, sicuramente per ragioni politiche.
Per me non sarebbe stato possibile fare avanti e indietro tra Roma e Messina con due bambini piccoli. Però ti devo dire una cosa che mi ha colpito moltissimo: un giorno ero qui a Torino a vedere una mostra di stupendi aquiloni giapponesi alla Permanente, al Valentino, con un’amica e mi viene incontro un signore sulla quarantina, almeno, che mi dice: “Professoressa come sono contento di incontrarla…” e io l’ho guardato sbalordita e non sapevo chi fosse, “ma come, non si ricorda, ho fatto la tesi di laurea con lei, anzi lei mi ha fatto anche una dedica sulla mia copia…”.
Era gentilissimo e affettuosissimo, viveva a Torino ma certo erano passati un bel po’ di anni!
Perché vi siete trasferiti a Roma nel 1953?
Raniero faceva già parte del Comitato centrale del partito ed era stato nominato responsabile della Sezione centrale di stampa e propaganda che svolgeva anche compiti di Commissione culturale, così non era più possibile restare a Palermo.
A Roma ho cominciato a lavorare alla rivista Noi donne dove avevo vari incarichi: ero una redattrice. Lavoravo otto ore al giorno, prendevo otto tram tra mattina e pomeriggio e quando si andava in tipografia si finiva a mezzanotte e allora io andavo ad aspettare Raniero al partito, certe volte lo aspettavo fino alle due di notte sul lungotevere.
Una volta dovevo fare un trafiletto per una fotografia che ritraeva un bambino a cui era successa una cosa incredibile: era finito tra le rotaie di un treno che per fortuna non lo aveva schiacciato perché era rimasto disteso tra una rotaia e l’altra e allora io avevo scritto nella didascalia “Miracolosamente salvo”, così sono stata convocata dalle dirigenti che mi hanno rimproverato per aver usato la parola “miracolosamente” dicendomi: “Noi qui non crediamo ai miracoli!”.
Erano veramente terribili e dogmatiche. C’era Maria Antonietta Macciocchi che dirigeva Noi donne, lei era più aperta ed era molto brava, una giornalista straordinaria.
La prima volta che ho fatto un articolo lei mi ha detto: “Ma tu scrivi bene…” e io: “Ma io non ho mai fatto la giornalista!”. Lì avevo conosciuto le figlie di Mafai, non Miriam, ma la sorella.
Un giorno mi mandano a intervistare Marlon Brando che stava in un hotel in piazza Barberini e io non sapevo l’inglese ed ero spaventatissima, così quando il portiere, interrogato, mi ha detto che era fuori me ne sono venuta via in gran fretta, ben felice di poter dire che non c’era.
Gli stipendi erano bassi e spesso pagati in ritardo così, a volte, dovevamo vendere qualcosa per comprare da mangiare.
E poi ho inventato le tavole rotonde, siccome Raniero conosceva un sacco di gente allora mi facevo indicare le persone da invitare.
Carlo Levi era un amico, non c’era bisogno del nome di Raniero, ma per altri sì (Pasolini, Bassani, Vasco Pratolini, Dina Jovine, e tanti altri). I temi erano i più vari e ti cito alcuni titoli: “Il piccolo divorzio”, “I matrimoni di oggi sono più felici?” o “La moda è solo frivolezza?”.
Ai dibattiti c’era spesso Joyce Lussu. Una volta venne un regista giovane che stava facendo un film con Virna Lisi giovanissima: era bellissima e venne accompagnata dal padre, era molto timida e non aveva ancora 18 anni.
Come vedi approfittavo del nome di Raniero, quando serviva. Mi hanno chiesto se mi è mai pesato essere la moglie di un uomo pubblico, ma non mi sono mai sentita semplicemente la moglie di..” perché avevo il mio mondo, il mio lavoro e le mie amicizie autonome, però sono sempre stata molto fiera di essere sua moglie.
Quando sono rimasta incinta di Daniele l’ho detto a Raniero che mi ha detto: “Come farai, un altro peso per te…”, e io gli ho risposto: “Ma io sono felicissima”, e così è stato, ma lui era preoccupato che fosse un aggravio di lavoro.
Quando Daniele aveva pochi mesi, Raniero era stato invitato a partecipare ad una delegazione per un viaggio in Cina e diceva che non sarebbe andato se non fossi andata anch’io, ma certo figurati con tre figli di cui uno di pochi mesi non sarebbe proprio stato possibile… E allora gli ho detto: “Ma tu sei matto!” e, alla fine, è partito.
E’ stato un periodo molto interessante anche quello romano e io ora mi domando come sarebbe con la mentalità e le comodità di oggi: io mi sono trovata a vivere in quel modo lì che oggi sarebbe considerato da poveretti, ma né io né Raniero lo abbiamo mai pensato. Raniero era stato straviziato dalla sua famiglia e mi raccontava che quando era ragazzo la mattina per colazione gli davano due o tre tipi di cioccolato diverso perché scegliesse quello che preferiva: era l’unico figlio maschio, molto più giovane della sorella che aveva dieci anni più di lui.
Sua madre, Ines Musatti, era una lontana parente di Cesare e sapendo di questa parentela, una volta che Musatti era venuto a Roma, un amico psichiatra torinese, Bollea, ci aveva invitato a cena: Musatti era un omone simpatico, spiritoso, persino io, che tendevo a sentirmi a disagio con le persone importanti, mi sono divertita; lui allora era già celebre ma non si dava delle arie ed era contento di conoscere un lontano parente e quindi abbiamo chiacchierato, cioè hanno chiacchierato perché io ho sempre preferito tacere…
Quando d’estate andavamo al Lido dei Pini dove i Pirelli ci prestavano la loro casetta, Raniero, cui piacevano molto i bambini, passava il tempo a giocare con loro.
Un giorno Betty Bronzini, che è stata poi una mia grande amica, e che non ci conosceva, era venuta a cercarci perché Carlo Levi le aveva detto di prendere contatto con noi per darci eventualmente una mano, visto che noi non avevamo una macchina. In seguito ha raccontato di aver chiesto ad un ragazzo che giocava al pallone: “Scusi, mi sa dire dove posso trovare il professor Panzieri ?”, e lui l’ha guardata e le ha detto: “Sono io”, perché Raniero aveva un aspetto da ventenne, pur essendo muscoloso, era molto magro: abbiamo molto riso di questo episodio.
Un momento molto doloroso per Raniero è stata la morte di Rodolfo Morandi. Era un uomo straordinario, di grandissima intelligenza, e Raniero era molto legato a lui. Era stato operato a Milano per una occlusione intestinale ma poi è sopraggiunta una setticemia. Raniero era andato a trovarlo, quando lui stava già molto male, e mi ricordo che Rodolfo gli aveva chiesto: “Valeva la pena di fare tutto quello che abbiamo fatto ?” e Raniero aveva risposto: “Sì, valeva la pena”.
Poi è tornato a Roma, dopo qualche giro che non ricordo, e io ho dovuto dirgli che Morandi era morto e, per la prima e ultima volta nella mia vita, ho visto Raniero con le lacrime agli occhi, perché era anche molto affezionato a Morandi, che se lo meritava.
Parliamo delle tue traduzioni…7
Io ho tradotto il secondo libro del Capitale e poi con Raniero abbiamo fatto la revisione, con Susanna in carrozzella a cui ogni tanto davo qualcosa perché fosse occupata. Quando il libro è stato pubblicato Raniero era molto arrabbiato perché avevano messo lui come traduttore e mi aveva detto: “Io gli faccio rifare la copertina…” e io gli ho detto: “Ce l’hanno pagata? E allora basta così”. A me non importava, ma a lui sì perché in fondo era stato un lavoro molto impegnativo e poi con una bambina piccola.
Le traduzioni di Marx. Quelle sono sempre state dure. Una traduzione a cui tengo molto sono gli scritti politici di Lutero. Poi ci sono state delle traduzioni fatte con la consulenza di Raniero, che non conosceva il tedesco, che non sono mai state pubblicate: un testo di Rosa Luxemburg o La critica al programma di Gotha di Marx. Ho tradotto, in occasione di Italia ‘61, per Franco Parenti, La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertold Brecht.
Eravamo al mare quando c’è stata la prima a teatro, ma io ci sono andata e Franco Parenti, di cui ero molto amica, era stato divertentissimo e aveva avuto un grande successo con moltissimi applausi e io, terrorizzata che mi chiamassero sul palco, per evitarlo, me ne sono uscita, zitta zitta, dalla sala!
Ho tradotto moltissimi libri di storia perché li prediligevo e molti sullo sterminio degli ebrei.
Raniero aveva molta stima di me anche intellettualmente, non soltanto come persona, ma noi eravamo molto parchi di complimenti e così io non gli ho mai detto che lo ammiravo e lui, quando facevo le traduzioni, mi faceva capire che ero brava!
Un altro trasferimento, questa volta a Torino.
Non ho molta voglia di ripensarci perché sono stati gli ultimi anni della vita di Raniero e i più difficili per lui.
Siamo venuti a Torino nel ‘59 perché Raniero era stato assunto da Einaudi. Io facevo le traduzioni e la madre di famiglia.
I Fornara ci hanno affittato un appartamento in strada Sei Ville 15: in questa casa abitavano molti compagni. E i bambini giocavano tra loro e c’era un ambiente molto familiare.
Raniero andava in autobus da Einaudi, ma non arrivava mai puntuale e quando tornava, appena entrava: “Pucci dove sei?”, era la prima frase che diceva sfregandosi le mani e Susanna lo imitava prendendolo in giro. Era molto attento a come i bambini stavano a tavola, ci teneva molto e, anche se raramente, li rimproverava se erano maleducati, ma non credo che abbia mai dato loro nemmeno un buffetto!
Quando venivate qui in gruppo e discutevate poi quando andavate via io dicevo: “Ma senti Raniero..” e dicevo la mia e lui, non che si arrabbiasse, ma mi diceva: “Perché non parli quando è il momento… perché non lo hai detto prima?”, ma io non osavo e poi mi piaceva discutere a tu per tu con lui e poi magari era una sciocchezza o forse no, almeno Raniero non si comportava come se avessi detto una sciocchezza, forse per cavalleria.
Altre volte quando facevate le riunioni e io non mi sentivo adeguata, allora andavo al cinema perché mi sembrava che il livello della discussione fosse troppo superiore al mio.
Lavoravamo nella stessa stanza a due tavoli che avevamo comprato a Porta Palazzo, posto dove Raniero amava molto andare, guardava, chiedeva i prezzi, dava delle speranze che poi lasciava cadere.
Io e Raniero ci siamo sempre sentiti profondamente liberi senza che ci fosse bisogno di dirsi “faccio così o così…”, e abbiamo vissuto in un modo che poteva parere strano perché tutti i nostri amici erano molto più ricchi di noi, ma ce l’abbiamo fatta lo stesso.
E poi c’era stata quella brutta discussione da Einaudi sulla pubblicazione del libro di Fofi sull’immigrazione a Torino8: a favore si erano pronunciati, credo, Solmi, Baranelli, Mila e non so più chi, ma Raniero ci era rimasto molto male ed era stato poi licenziato.
Pochi mesi prima che morisse, Tristano Codignola gli aveva offerto un incarico alla Nuova Italia.
La morte di Raniero?
Quella sera eravamo andati al cinema e poi a mangiare una pizza o viceversa e poi lo aveva colto quel feroce mal di testa una volta giunti nella nostra stanza.
Per anni mi sono chiesta che cosa avrei fatto se gli fosse successo sulla nostra salita che è assai ripida: noi andavamo sempre a piedi. Mio fratello, dopo che Susanna gli aveva telefonato, è venuto, gli ha sentito il polso ed è svenuto. Poi sono venuti Oreste Fornara e Tullio Grassi e non ho mai avuto il coraggio di farmi spiegare che cosa avesse veramente avuto; loro dicevano che non avevano mai visto una persona morire così con un’espressione intatta e non deturpata mentre si alternavano a fargli un ormai inutile massaggio cardiaco.
Veramente io lì per lì quando Raniero era sul balcone e poi è rientrato dicendo: “Ho un mal di testa terribile”, gli avevo detto: “Sdraiati” e, non appena sdraiato, lui si è messo subito a rantolare, ma io non capivo. Allora ho svegliato Susanna e le ho detto di telefonare allo zio Leandro, poi ho telefonato a Oreste e Tullio. Ringrazio il cielo che sia andata così: se fosse rimasto menomato non sarebbe stato giusto per lui e io non avrei sopportato di dover avere pena e compassione per lui.
Io poi avevo telefonato a casa di Vittorio9 e suo padre, che era sempre una persona molto gentile, mi aveva detto: “Ma signora, ci telefona a quest’ora”, o una cosa del genere e allora gli ho spiegato e lui mi ha detto che eravate da Dario e Liliana e ho parlato con Dario e dopo pochissimo tempo siete arrivati, ma Raniero era ormai incosciente. La mattina dopo ho dovuto svegliare Davide e Daniele e dire che il loro padre era morto.
Secondo me ha perso subito conoscenza. Certe volte penso se fosse vivo come sarebbe, non riesco a pensare a Raniero vecchio, aveva solo 43 anni.
Se rinascessi, nonostante tutto, rifarei tutto daccapo, non cambierei niente perché 17 anni con lui sono stati anni molto pieni e allora non rinuncerei a nulla di quello che abbiamo vissuto insieme. Dopo la morte di Raniero, il 9 novembre, ho avuto un incarico per insegnare lettere in una scuola media di Venaria.
Il preside, Verlengia, che era del Pci, mi aveva accolto così: “Ero un avversario di suo marito ma lo stimavo”. Ho insegnato per 12 anni a Venaria e poi mi sono trasferita a Torino alla scuola media Olivetti: per me il lavoro a scuola è stato sempre molto gratificante e stimolante e il rapporto con i ragazzi sempre molto intenso, tanto che mi capita ancora adesso di incontrare ex-allievi che mi riconoscono e mi vogliono abbracciare.
Sì, la mia vita è stata bella e anche se c’è stata la perdita di Raniero gli anni con lui sono stati intensissimi e mi hanno nutrito anche dopo!
La scuola mi ha dato moltissimo e di fronte a ragazzi deprivati e di famiglie povere mi sono sentita, insieme ai miei figli, una privilegiata.

La mia vita è stata bella perché sono sempre stata libera.

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