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Alcune osservazioni sul libro di Pacini su D’Amato

IN MARGINE A UN NUOVO LIBRO SUL CAPO DEGLI AFFARI RISERVATIIl nuovo libro di Giacomo Pacini, La spia intoccabile, Einaudi, dedicato a Federico Umberto D’Amato (nella foto), il capo degli Affari Riservati del Viminale, il servizio segreto pesantemente coinvolto nella strage di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia, con un’appendice inquietante nella Strage di Bologna, densissimo di notizie, appare purtroppo anche un po’ troppo lacunoso (su alcuni punti) e volontariamente inconcludente. Certo, partendo dalle nuove accuse su Bologna rivolte a D’Amato, è difficile in assenza del dibattimento in aula sapere con certezza che cosa hanno raccolto sull’ex capo dell’Uar (Ufficio affari riservati) i magistrati di Bologna che lo accusano di essere stato un canale tra Gelli e i Nar per il finanziamento con i soldi del Banco Ambrosiano della strage della stazione. Accusa pesantissima che Pacini però definisce “tesi estrema, apparentemente ai confini della credibilità”. Nella premessa del libro Pacini usa anche l’aggettivo “confuso” per lo scenario della cronaca di questo nuovo processo.Non assolutorio, certo, ma visibilmente critico… Forse la pagina più illuminante del libro, assai ricco di documentazione, è nell’immagine di copertina scelta in cui si vede un uomo di spalle che quanto a stazza è, diciamo, la metà del corpulento D’Amato. Insomma un trattamento assai snellente…A parte i toni sminuenti sulla nuova inchiesta di Bologna, quello che sicuramente mi è piaciuto di meno è la parte “milanese”, cioè del 12 dicembre 1969 con la strage di Piazza Fontana e soprattutto con la morte di Giuseppe Pinelli. Facile risolvere questa morte con la notazione notarile “precipitato da una finestra al quarto piano per ragioni mai pienamente accertate”. Pacini che peraltro ha letto, vedo, i libri sulla materia compresi quelli di Fuga Maltini (Pinelli. La finestra è ancora aperta, Colibrì, 2016) e il mio (Pinelli. L’innocente che cadde giù, Castelvecchi 2019), non ricostruisce in modo pieno la presenza a Milano degli Affari Riservati in quei giorni del dicembre 1969. Non ne tira poi tutte le conseguenze, quelle dell’essere davvero loro i “padroni” dell’inchiesta. Il termine non è mio ma degli stessi funzionari dell’Uar, lo usò davanti al giudice istruttore Carlo Mastelloni nel 1997 il capo della VI sezione degli Affari Riservarti, Guglielmo Carlucci: “Allora eravamo i padroni delle indagini”. Aggiungendo: “Noi davamo le notizie e l’Ufficio Politico faceva il rapporto facendole proprie”.Pacini non riporta questo pezzo del verbale del 15 maggio 1997: non lo conosce? Non l’ha letto neanche nel mio libro?Non è l’unica mancanza che riscontro, sempre relativamente alla morte di Pinelli. L’autore non riporta neanche quanto riferito, sempre a Mastelloni, dal segretario dell’Ufficio Affari Riservati Giuseppe Mango. Che il 30 aprile 1997 ha affermato una circostanza fino a quel momento sconosciuta, la “versione” comunicata dal capo dell’Ufficio Politico della Questura di Milano Antonino Allegra al capo della Polizia Vincenzo Vicari in occasione della sua convocazione a Roma dopo la morte di Pinelli. “Allegra – ha riferito Mango – sosteneva che Pinelli si era appoggiato di spalle alla finestra e che improvvisamente si era buttato giù. Tutto questo seppi dallo stesso D’Amato dopo la convocazione di Allegra da parte del capo della polizia”.Quest’ultima frase, sulla fonte della “versione” Allegra, manca. A me pare però rilevante.Non sono sembrate rilevanti a Pacini queste parti dei verbali?Neanche dopo quanto di recente affermato al giornalista Andrea Sceresini dall’ex capo dell’ufficio D del Sid Gianadelio Maletti: “Lo interrogavano e ad ogni domanda lo spingevano un po’ più in là sulla ringhiera…”Beh, forse è perché l’autore non ha voluto tirare tutte le conseguenze sul ruolo degli Affari Riservati in quelle ore a Milano nel dicembre 1969. Lo si ricava anche dalla ricostruzione materiale della presenza di uomini dell’Uar nella Questura di Milano (circostanza per anni e anni taciuta dagli inquirenti) che Pacini riduce a soli “cinque o sei”, utilizzando una dichiarazione di Alduzzi capo dell’ufficio milanese dell’Uar. Ma perché Pacini non ha tenuto conto anche da quanto invece dichiarato da Mango, il segretario dell’Uar, secondo il quale a Milano erano giunta la squadra diretta dal Carlucci composta da “sette o otto persone”. Alle quali allora vanno aggiunti comunque i due componenti dell’ufficio milanese dell’Uar (Alduzzi e Galli) oltre ai due dirigenti in capo arrivati da Roma, Silvano Russomanno e Francesco D’Agostino. Alla fine non sono più allora cinque o sei ma il doppio, no?Una dozzina di invadenti funzionari in un ufficio come quello milanese che non era troppo grande e in cui da quasi tre giorni si stava torchiando l’innocente Pinelli.Ma non è solo una questione numerica quella dei funzionari Uar precipitatisi a Milano, è il prepotere di quell’Ufficio a farla da padrone nei giorni del dicembre 1969 a Milano. Mango dice chiaramente: “Russomanno coordinò le indagini”. E dunque?Forse l’autore poteva sforzarsi un po’ di più, non solo sui Pinelli ma più in generale anche su Piazza Fontana. Riporta il collaboratore di giustizia Filippo Barreca, che ebbe in gestione in Calabria il latitante Franco Freda, che riferisce quanto Freda gli rivelò “D’Amato era un mandante, un responsabile morale della strage…”. Bene, ma perché precipitarsi subito dopo a commentare (nei confronti di quello che l’autore definisce “pentito attendibile” per la magistratura calabrese): “Le sue parole devono inevitabilmente essere prese con prudenza”…Insomma Pacini sembra non voler credere a quanto egli stesso ha poi raccolto sulla “spia”, della quale ha ricostruito in lungo e in largo le coperture compresa quella offerta dal Pci. D’Amato è morto nel 1996, difficile a distanza di tanti anni arrivare a conclusioni certe. D’accordo, a patto però di usare tutte le fonti che si possono ancora trovare e di ragionarci sopra di conseguenza. Sul ruolo nefasto degli Affari Riservati l’indagine non è chiusa.

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